Considerazioni e interrogativi verso la fine di un anno particolare
Era cominciato bene il 2020, ricco di speranze e di progetti. Eravamo stati in America, a Los Angeles, dove ha scelto di stabilirsi nostro figlio Guido con Kelly, per la nascita della nostra prima nipotina Yuna Theresa e in quel mese avevamo fatto i nonni ripassando le età della nostra vita insieme...
Era cominciato bene il 2020, ricco di speranze e di progetti. Eravamo stati in America, a Los Angeles, dove ha scelto di stabilirsi nostro figlio Guido con Kelly, per la nascita della nostra prima nipotina Yuna Theresa e in quel mese avevamo fatto i nonni ripassando le età della nostra vita insieme. Un mondo molto diverso dal nostro, fatto di distanze quotidiane da colmare quasi sempre con la macchina. Tutte dimensioni esageratamente grandi per il nostro occhio di europei abituati alla città sotto casa, al quartiere, al rione del nostro paese. Abbiamo visto Yuna solo un mese, poi le riprese sono continuate a distanza, alla sera, per via del fuso orario. C’era stata una “reunion” per il giorno del Ringraziamento: da Parigi erano arrivati anche Laura con Juan e poi si erano aggiunti altri amici per la tavolata col tacchino da 11 libbre, 5 kg, con la salsa di mirtilli e il purè. Ci si mette a tavola presto al Thanksgiving day perché poi i commensali devono affrontare distanze che si misurano a ore di macchina, come nel Far West si contavano le giornate a cavallo. Almeno così ci raccontavano da ragazzi nei film western. Lo spirito dell’America è ancora quello: la macchina in tutte le fogge regna sovrana. E poi eravamo tornati riprendendo le nostre abitudini: tutto secondo le nostre aspettative. Avevamo già preso il biglietto per il ritorno, un anno dopo. Ma l’irruzione della pandemia ha cambiato completamente abitudini e modi di vita. Lentamente le prime avvisaglie che si intensificano, i messaggi in tivù e una parola nuova “Coronavirus” che ben presto monopolizza ogni discorso pubblico e privato. In un battibaleno ci siamo ritrovati chiusi in casa, alle prese con una parola nuova, lockdown, con una realtà nuova da affrontare e a misurare ancora una volta le nostre necessità con le possibilità di soddisfarle. La spesa: a tamburo battente negozi di vicinato ripristinano gli ordini e la consegna a casa. Ma tutto è in qualche modo contingentato. Bisogna riorganizzare la giornata, prevedere diversi momenti per arrivare a sera, decentemente soddisfatti. Le regole del lockdown ci mettono a dura prova: bisogna dimostrare la necessità degli spostamenti. E la tivù che riprende una funzione di tramite sociale, di racconto: una narrazione pubblica, come nelle migliori tradizioni. Scene che rimangono indelebili: i camion militari che escono di notte da Bergamo carichi di bare, l’infermiera colta dall’obiettivo a dormire, ormai senza forze, stramazzata per la fatica dopo giornate di impegno senza respiro. Il lento stillicidio dei morti delle case di riposo dove se ne sta andando un’intera generazione, nella solitudine e nell’abbandono. Ed ora dopo l’estate, la ripresa del morbo, le regioni gialle, arancio e rosse, il contagio che bussa alle porte dell’inverno e forse non risparmierà il Natale. Con il corollario, già visto, di ricoveri ospedalieri, del personale sanitario al limite della sopportazione fisica e mentale e l’allarme perpetuo nelle case di riposo. Un tunnel che sembra senza uscita, se non si potrà contare sui vaccini che le case farmaceutiche stanno sperimentando in una gara senza tregua. Questo anno che ci ha vietato anche di fare i nonni, la cosa più bella ed elementare della vita, come ci lascerà? Avremo ancora la forza di amare? Tutto questo ci ha riportato ad una nuova sensibilità, insomma, ha contribuito ad umanizzarci, a ridarci il senso e il valore della vita? È una domanda che mi faccio spesso e che nell’anno del Covid ognuno dovrebbe porsi per riguadagnare la sua identità, il senso delle cose e la consapevolezza che il bene che abbiamo, se non viene condiviso, può scivolarci dalle mani senza che ce ne accorgiamo.
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