Editoriale
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Un calcio a quel fango

I nostalgici ragazzetti del gioco del pallone – quello prevalentemente giocato nei campetti parrocchiali dove l’erba è improbabile, le dimensioni del rettangolo di gioco approssimative e il pallone...

Parole chiave: Pallone (2), Editoriale (407), Calcio (136)

I nostalgici ragazzetti del gioco del pallone – quello prevalentemente giocato nei campetti parrocchiali dove l’erba è improbabile, le dimensioni del rettangolo di gioco approssimative e il pallone, che finisce regolarmente nel fiume o nel giardino delle case vicine, li tiene inchiodati fino a quando non ce la si fa più o viene il buio – col tempo si sono “evoluti” e sono passati a essere spettatori, anche se la carica emotiva e lo sforzo fisico non sono diminuiti. Ultimamente si assiste ad un ulteriore cambiamento: la partita vera non è più quella che dura novanta minuti più uno scampolo di recupero, ma quella che inizia attorno al novantesimo minuto e si prolunga fuori dallo stadio. Gli attori principali tornano ad essere i ragazzotti che a giocare non ce la fanno o magari non ci hanno mai neanche provato, ma forti del branco mettono in scena spettacoli di genere discriminatorio e razzista.

Sia ben chiaro, il binomio calcio e violenza ha sempre conteso il primato a quello calcio e sport, e lo stadio come sfogatoio di pulsioni represse ha sempre ammorbato la visone olimpica della competizione animata da passione e lealtà sportiva. Il dilagare del razzismo non va sottovalutato. Un conto è il dileggio rivolto agli avversari: entro certi limiti può dare un po’ di pepe con quella pungente ironia che manifesta l’intelligenza e la creatività; altra cosa è l’odio irrazionale verso i nemici e la caccia all’uomo che coinvolge intere curve degli stadi.

È vero razzismo? È solo maleducazione? È un fenomeno spontaneo di pochi esagitati o c’è qualcuno che orchestra ad arte anche questo “terzo tempo all’incontrario” per altri scopi? Sta di fatto che se non odi visceralmente qualche maglia, non sei un vero tifoso e se la tua squadra non vince a tutti i costi anche tu sei un perdente: questo, al di là delle etichette, è il male del calcio e non solo.

Ne abbiamo conferma osservando le formazioni dilettantistiche e i settori giovanili dove si fa sempre più fatica a mettere insieme un numero sufficiente di atleti per iscriversi ai campionati. Evidentemente il calcio è sempre meno pallone e sempre più altro. Anche i grandi giocatori sono sempre più strapagati pupazzi da circo e sempre meno esempi per i ragazzi di lealtà, sportività e rispetto.

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