«Il mio percorso per diventare “una meraviglia”»
di LUCA PASSARINI
Don Francesco Marini e l’imprinting familiare
di LUCA PASSARINI
“Hai fatto di me una meraviglia stupenda”, dicono le parole del Salmo 139 e ripete don Francesco Marini (37 anni). Non è questione di vanità, di sentirsi perfetti o di non vedere i propri difetti; ma riconoscere il dono e la cura del Signore, lungo tutta la vita. Andando alle fondamenta, questa attenzione amorevole la nota a partire dalla propria famiglia di origine: «I miei genitori sono stati per anni impegnati in parrocchia a Cadidavid come animatori e nella pastorale familiare, offrendo in questo modo anche a noi figli la possibilità di vivere tante esperienze di fede».
Il primo approccio con il Seminario è stato particolare; ci racconta: «Io e mio fratello Matteo abbiamo frequentato gli incontri vocazionali proposti per i ragazzi. Lui a fine quinta elementare ha vissuto anche l’esperienza del campo Speranzine, al termine del quale espresse il desiderio di entrare in Seminario minore. I miei genitori preferirono temporeggiare e per questo non ci fu alcun ingresso». Nel frattempo, Francesco ha continuato a vivere i diversi percorsi, fino a quando – al termine della prima superiore – sentì dentro di sé il desiderio forte di vivere questa esperienza di comunità: «Mi attirava l’idea della compagnia e mi sembrava davvero un camposcuola lungo tutto un anno, durante il quale condividere la quotidianità e le diverse attività proposte». Di nuovo i genitori sentirono tale richiesta da parte di un figlio e questa volta accettarono, anche grazie al confronto con alcuni sacerdoti. «L’ingresso in seconda superiore – confessa – fu un travaglio non solo per questo, ma anche per la difficoltà iniziale dovuta soprattutto al passaggio da un liceo scientifico che stavo frequentando ad un classico, che il Seminario allora offriva unicamente».
Superati questi scogli, l’esperienza si confermò però davvero bella, con la sua ricchezza di relazioni e di proposte. «Verso la fine delle superiori – continua don Marini – ho iniziato a intuire la possibilità di continuare il cammino nel Seminario maggiore. Non avevo ancora le idee chiare, ma ho iniziato a pensarci e a provarmi, chiedendomi anche: perché no?». Il passaggio di comunità ha voluto dire un grande cambiamento anche a livello di persone: «In sei siamo andati avanti dal Minore e ci ritrovavamo in classe con altri sei che avevano fatto l’anno di Casa San Giovanni Battista e venivano da esperienze molto diverse. Tra l’altro, con molti eravamo vicini per età, ma alcuni erano molto più grandi». Don Francesco sottolinea però che sono stati anni belli per le relazioni e importanti per il discernimento vocazionale: «Dentro la vita comunitaria intuivo la chiamata al sacerdozio, a seguire il Signore in un servizio particolare all’interno della Chiesa come è quello del pastore».
Quando tutto sembrava procedere tranquillamente e per il meglio, ecco la richiesta alla fine del terzo anno di vivere un’esperienza diversa: «In quei mesi – prosegue – si sono sommate varie cose. Da una parte la situazione a casa resa tesa dal ritorno della malattia al papà, che da subito si intuiva essere piuttosto grave; dall’altra, il desiderio di rallentare un attimo il ritmo, dato che coglievo il rischio di ritrovarmi ad essere prete senza quasi accorgermene. Con gli educatori abbiamo capito che non si trattava di fare un’esperienza in parrocchia, dato che non sembrava quella di cui ci fosse bisogno, ma di pensare qualcosa di diverso. Mi è stata, così, data la possibilità di vivere sei mesi nel monastero di Praglia, dove il loro stile e i loro tempi mi hanno offerto il modo per mettere in ordine vita e idee, a cui sono seguiti due mesi presso la cappellania dell’ospedale di Borgo Roma, dove ho potuto gustare la fraternità sacerdotale ed entrare in contatto con il mondo della sofferenza, vedendo come la si può attraversare in maniera diversa e accompagnata».
Il ritorno nella comunità del Seminario maggiore ha voluto dire per Francesco anche l’ingresso in una nuova classe, molto diversa dalla precedente, perché meno numerosa e che gli anni avevano amalgamato maggiormente, con la bellezza di poter condividere non solo chiacchiere e impegni, ma anche la fede. «È stato anche il periodo – ricorda – in cui la vocazione si è delineata e chiarita: se è vero che ogni battezzato è chiamato a servire il Signore, io intuivo un modo particolare, ovvero quello del ministero del prete». Gli ultimi anni formativi, nonostante la situazione del papà, sono stati molto sereni, con la ricchezza di esperienze significative, le proposte formative, le diverse testimonianze. In particolare sottolinea quello di quarta teologia, con il servizio di assistentato al Seminario minore: «Eravamo in cinque, un numero piccolo rispetto a quegli anni, per cui è stato parecchio faticoso, ma molto bello e ci ha visto tutti contenti».
L’anno del diaconato è stato pure quello che lo ha visto, insieme alla famiglia, accompagnare il papà verso la morte, avvenuta un mese prima della sua ordinazione presbiterale, fissata com’era allora tradizione, alla vigilia dell’Ascensione: 15 maggio 2010. Don Francesco Marini ha vissuto i suoi primi anni di ministero in due realtà molto diverse tra loro: come curato nella parrocchia cittadina di Santa Maria Immacolata (2010-2014) e come parroco di Padenghe (2014-2019), nel vicariato del Lago bresciano. «Dopo pochi mesi da questa seconda nomina – ci racconta – ho iniziato a studiare cinema presso il Dams dell’Università Cattolica a Brescia. Al termine, nel 2018, mi è stato affidato anche l’incarico di direttore del Centro diocesano cinematografico, che vuol dire in particolare seguire la vita delle sale di comunità». Nel 2019 ecco il trasferimento all’ufficio di parroco di Lugo, a cui si è recentemente aggiunto quello di Rosaro: «Realtà che hanno una forte tradizione e che sono da accompagnare in alcuni passaggi dentro questo cambiamento. Da parte mia porto il rapporto con Dio, il sapermi amato, voluto e mandato da Lui, il servizio alla fede che passa anche attraverso i sacramenti, la bellezza di aver intuito dentro una cultura dell’autorealizzazione, che la vera realizzazione si trova quando si rendono più felici gli altri».
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