Mamme di ieri e di oggi: una festa tutta meritata
Confronto intergenerazionale con un filo comune: il coraggio. Festeggiamo la "fabbrica" della vita raccontando storie che si toccano
12 maggio: mamme di ieri...
Festeggiamo la “fabbrica” della vita raccontando storie che si toccano
La parola che compare più frequentemente sulle labbra delle persone che stanno per morire è: mamma... Se un padre abbandona o si disinteressa di un figlio, non ci facciamo (purtroppo) neanche caso; se lo fa una madre, la cosa risulta scioccante.
Insomma, una figura centrale nella vita di ogni essere umano. Proprio perché ci ha dato la vita. Così il 12 maggio la Festa della mamma è una festa per tutti: sia per chi ha figli, sia per chi è figlio.
Il ruolo, però, oltre ad essere notevolmente cambiato nel corso degli ultimi decenni (le madri “di una volta” non sono ovviamente le madri “di oggi”), sembra aver imboccato la strada percorsa da panda e storioni: è in via d’estinzione, non solo nello stanco ed esausto mondo occidentale.
La malattia si chiama denatalità e ha come conseguenza, oltre alla rarefazione dei figli, la progressiva diminuzione delle madri. Già oggi in Italia ogni coppia genera 1,3 figli; insomma se si fa un figlio, tale rimane. Le pubblicità si adeguano e, se notate con attenzione, ai classici due figli degli spot televisivi, si sono sostituito il pargolo unico affiancato dal cane.
Ma sempre meno figli si fanno pure in Russia, dove la situazione è drammatica; in Giappone, il Paese più vecchio del mondo assieme a Germania e Italia; addirittura in Cina dove il potere locale proibì per decenni di generare più di un figlio. Con la conseguenza che ora, “liberalizzata” la procreazione, rimane quello lo standard familiare.
Intanto facciamo festa alle nostre mamme: ne presentiamo alcune di due epoche differenti. Il loro racconto di vita è la nostra storia, di ieri e di oggi. Di ieri, quando essere madri, mogli, donne nelle ristrettezze di allora, non era certamente una passeggiata. Di oggi, con mamme combattive che lottano per i loro figli. A pensarci bene, sono in realtà uguali, le unisce una parola: il coraggio. Che è la benzina di ogni mamma, ieri come oggi.
Nicola Salvagnin
... e mamme di oggi
perché tutte quante hanno un identico propulsore: il coraggio
Coraggiose, determinate. Combattive nel trattenere una speranza: preservare, costi quel che costi, il futuro dei loro figli. Quello che, allargando lo sguardo, è l’avvenire di tutti. Se toccate sul vivo, sono capaci di fare squadra le madri di oggi: curano la famiglia e lavorano, ma pretendono anche di avere risposte dalle istituzioni. Quando non ascoltate, si ribellano con una forza che nemmeno loro sapevano di possedere. Sempre però mantenendo il sorriso.
La battaglia intrapresa dal comitato “Mamme no Pfas” è impegnativa. Ha a che fare con l’ultima grande emergenza ambientale del nostro Paese. E con un acronimo, sconosciuto forse ai più, che definisce una famiglia di composti chimici pericolosi: le sostanze perfluoroalchiliche che, dalle produzioni industriali, si sono insinuate nelle falde, quindi nelle case e nelle vite di adulti e bambini attraverso l’acqua del rubinetto. Si caratterizzano per la capacità di rendere impermeabili a liquidi e grassi oggetti come tessuti cerati e smartphone; sono impiegati inoltre per rendere anti-aderenti le padelle.
Stringe tra le mani la lettera da cui tutto è partito Giovanna Dal Lago nel raccontare la sua storia all’appuntamento con i “Martedì del mondo” promosso l’8 maggio da Fondazione Nigrizia, Centro missionario diocesano, Combonifem e Cestim. Adesso è una delle tante voci del comitato, ma il 12 aprile del 2017 era una mamma qualsiasi, residente a Lonigo (Vicenza), che ha ricevuto l’invito ad accompagnare la figlia Francesca a effettuare uno screening gratuito. In quelle righe stampate che accennavano a un programma di sorveglianza, lette con fiducia assieme al marito Antonio, si nascondeva il problema.
Dai valori riscontrati nelle analisi del sangue non solo di Francesca, ma degli altri suoi quattro figli, ha scoperto quanto erano nocive quelle sostanze dal nome impronunciabile, ritenute causa di malattie al sistema endocrino e riproduttivo. «Risultavano essere persistenti e presenti nell’acqua e nel suolo. La principale fonte di esposizione era l’ingestione di acqua contaminata. L’eliminazione è lenta: in media richiede dai 4 agli 11 anni se non si è più esposti, ma nei maschi i tempi sono più lunghi che nelle femmine», ha fatto sintesi, richiamando il contenuto dell’informativa che le era arrivata via posta e che in alcune parti aveva tralasciato di leggere.
Perché? «Perché mi fido di chi incontro per strada. Mi fido delle istituzioni, in particolare della sanità – ha risposto –. Ma adesso non mi fido più». Si è innescato allora il desiderio di capire: «Ho chiamato un’amica, un’altra e un’altra ancora per trovarci a parlare davanti a un caffè. Il nostro gruppo è nato al bar, condividendo prima la rabbia e dopo il desiderio di sapere tutto delle sostanze chimiche che avevano inquinato il sangue ai nostri figli».
Annuisce Carmen Chiarello: mamma no Pfas di Brendola, nel Vicentino, che sulla maglietta esibisce la scritta “zero per cento Pfas”. Ricorda una delle prime serate in cui a Lonigo, era maggio di due anni fa, si iniziò a sollevare la questione tra i residenti della zona rossa individuata tra Vicenza, Verona e Padova. «Allora abbiamo capito la gravità della situazione, la rabbia è diventata incontenibile e il gruppo si è ampliato. In 18 mesi abbiamo programmato 120 incontri: con i sindaci, i vertici delle Ulss, in Provincia e in Regione. Nel 2018 siamo arrivate a Strasburgo e Bruxelles», elenca. Conquiste inanellate una dopo l’altra dalle mamme coraggio, insignite lo scorso anno del Premio Acqua alla settima edizione del “Donne Pace Ambiente Wangari Maathai”.
«Proprio a Roma, in occasione della premiazione, abbiamo incontrato altre donne impegnate a tutela dell’ambiente e della terra ed è nato il gruppo “Mamme da Nord a Sud”, molto attivo su Facebook. Un traguardo importante che ci aiuta a condividere le difficoltà e la preoccupazione», spiega Chiarello. «Non è stato facile – ammette –. Abbiamo studiato, letto carte. La nostra profonda diversità ha fatto in modo che rimanessimo unite, ci ha fatto credere che insieme avremmo potuto affrontare qualsiasi situazione, scontrandoci con la politica. Il 16 giugno ci riceverà papa Francesco e questo ci dà la forza di continuare a portare avanti questo impegno».
Nelle loro parole si mescolano rabbia, determinazione, preoccupazione, desiderio di chiarezza. Nulla è come prima. In particolare dopo la lettera che Giovanna dal Lago continua a stringere tra le mani e che ha raggiunto centinaia di famiglie, all’epoca ignare. «Non racconteremo più ai nostri figli la favola di Cappuccetto Rosso – conclude la madre leonicena –. Ma la vicenda della ex Miteni, un’azienda di Trissino che qualcuno ha permesso sorgesse su un bacino di acqua enorme; un’azienda che ha rubato l’acqua a 30 Comuni, a tre province. E l’inquinamento è destinato ad allargarsi a 800mila persone. Perché l’acqua corre e prima o poi raggiungerà il mare...». Ma, in parallelo, le coraggiose mamme no Pfas continueranno a pretendere risposte e soluzioni, per il bene dei loro figli.
Marta Bicego
Maria e i suoi nove figli: «Se Dio ci dà un agnello ci dà anche il pascolo»
La sua vita, uno spaccato di vita novecentesca
Occhi azzurro cielo, voce dolce e sorriso accogliente. Maria Pozza, 92 anni compiuti lo scorso 25 aprile, è una mamma d’altri tempi. Di quelle con una vita semplice e al contempo così piena che un pomeriggio di confidenze non bastano a raccontarla.
Con 9 figli, 15 nipoti, 5 pronipoti e uno in arrivo, da sempre la sua casa è ricolma di bambini. Nata a Buttapietra da una famiglia contadina, classe 1927, Maria era la più grande di cinque figli. «Ma come un tempo accadeva, abitavamo in casa con una zia e i suoi sei figli maschi, quindi ero la maggiore di 11», racconta con una lucidità invidiabile. «Mia mamma è morta quando avevo 12 anni, così è toccato a me fare da madre alla mia sorellina di un anno, cagionevole di salute», spiega.
I suoi genitori, Egidia e Domenico, erano originari della vallata di Crespadoro, nel Vicentino. Sono stati loro, la mamma in particolare, a trasmettere a Maria una fede incrollabile. «Lei era molto devota, ha pregato tanto: mi prendeva per mano e insieme andavamo a Messa a piedi – ricorda –. Qualche volta restavo a giocare nell’oratorio e, tornando a casa, mi raccontava il Vangelo ascoltato, addolcito in un modo che solo lei sapeva fare». Le raccontava della Madonna della Corona e delle apparizioni di Lourdes; le raccomandava di andare in chiesa per salutare la Vergine e dire un’Ave Maria. «Spesso aveva la febbre, allora io piangevo nel mio letto. Dicevo che avevo mal di pancia: non era vero, volevo solo starle vicina. Quando i miei genitori mi chiamavano nel lettone mi passava tutto… Ricordo che quando chiedevo a mia mamma se stava male, mi rispondeva: Se mi moro, te racomando i to fradei, “Se io muoio, ti raccomando i tuoi fratelli”».
Erano tempi duri, quelli. «Tra i ricordi più belli, conservo le mattine passate col nonno sull’argine del Menago, a pascolare le mucche: guardavamo la forma delle nuvole e pregavamo insieme – aggiunge –. Lì accanto, mio papà piantava per terra due picchetti e tirava un filo per tenere radunati gli animali. Mi diceva: “Vedi Maria, così è la nostra vita: ci sembra sempre che davanti al limite ci sia l’erba più buona, invece è su quella che già abbiamo, che dobbiamo metterci a lavorare”».
Nonostante la povertà diffusa e la paura per i continui bombardamenti durante la guerra («Andavamo in chiesa a ripararci: più le bombe cadevano, più noi cantavamo»), si trovava però la gioia di stare insieme. «In tavola mancava il pane anche per venti giorni, allora si mangiava polenta – ricostruisce Maria –. La sera si faceva il filò e la nostra stalla si trasformava nel più lussuoso salotto: si recitava il rosario e poi si chiacchierava, mentre le donne rammendavano i calzini».
Maria avrebbe voluto fare la maestra, ma dopo la quinta elementare occorrevano i soldi per pagare le scuole. «E poi avevo la famiglia da seguire… Però all’età di 65 anni ho fatto le serali, prendendo il diploma delle medie!», sottolinea con soddisfazione, mostrando le poesie che tuttora compone.
La sua vita è cambiata a vent’anni, con un incontro in piazza a Buttapietra. Davanti alla giostra dei cavalli su cui la sorellina faceva un giro, nel giorno della sua prima comunione, Maria si sentì toccare una spalla. Era Luigi Gentilin, di Raldon, classe 1919, il suo futuro marito. Le chiese se poteva accompagnarla a casa. «Siamo stati fidanzati un anno e mezzo e ci siamo sposati l’8 febbraio del 1948, una giornata con un sole splendido: dopo la cerimonia abbiamo tenuto un pranzo in casa, con 120 invitati e l’immancabile fisarmonica; mio marito era bravissimo a cantare». L’inizio della vita condivisa: Maria va ad abitare in località Scaiole, nella famiglia dello sposo, sotto lo stesso tetto dei suoceri, come si usava un tempo. «Io desideravo essere mamma, ma non avrei mai pensato di dare alla luce nove figli – confessa –. Luigi invece voleva mettere su una grande famiglia, perché durante i sette anni passati al servizio militare aveva fatto una promessa: accettare tutto quello che il Signore gli avrebbe mandato».
Per prima arrivò Flora, nel dicembre del 1948. Poi Egidia, nel 1950, e Antonio, nel ’52. «Tutti e tre partoriti in casa: Antonio, il primo figlio maschio, è nato che ero da sola, prima che mio marito arrivasse in bicicletta con la levatrice di un paese vicino, perché quella del posto era già occupata», ricorda la signora. Gli altri sei sono nati in ospedale: Lucia nel 1953, Renzo nel 1955, Giandomenico nel 1958, Daniela nel 1961, Loretta nel 1964 e Fiorello nel 1972. Il primo a 21, l’ultimo a 45 anni compiuti. «L’arrivo di Fiorello è stata una gioia, ma subito mi vergognavo un po’ – rivela Maria –. All’epoca avevo già una figlia con un bambino e un’altra incinta; io non ero più giovanissima e mi era stata prospettata persino la possibilità di abortire. Tutte le paure sono scomparse dopo gli accertamenti, quando sono tornata a casa da mio marito Luigi, che mi ha detto: “Se il Signore ha pensato a un altro agnellino, ha pensato anche al pascolo”. Lui mi faceva sempre coraggio».
La maternità per le donne contadine non era motivo di esenzione dalle fatiche. «Nel campo ci si andava fino ai 7-8 mesi: a raccogliere fragole, a piantare la polenta, a caricare il fieno – spiega –. Dopo il lavoro della terra c’era quello in casa: dal cucinare al fare la lissia, il bucato con la cenere. I pannolini dei bambini? Si lavavano nell’acqua corrente della fossa Bolletta, un’insaponata e via: appesi al filo d’estate, accanto al camino d’inverno. Per tirarci su ci davano da bere brodo di gallina e durante l’allattamento l’olio di ricino, se il neonato stava poco bene».
I suoi primi bimbi sono stati in fasce fino ai tre mesi. «Che bello preparare i corredini e ricamarli... Quando nasce una creatura la stanza diventa piena di luce!». Maria si dice fortunata. «I parti sono andati tutti bene: solo nel 1951 sono stata ricoverata d’urgenza e ho rischiato addirittura la vita per una mola vescicolare», dice.
Nel 1959 è venuta ad abitare con i figli piccoli e il marito (morto in un incidente in motorino nel 1979) nell’attuale casa di via Porto, a San Giovanni Lupatoto. «Abbiamo deciso di spostarci dopo una violenta grandinata, che aveva spazzato via tutto il raccolto di pesche, ma soprattutto a seguito di un incendio causato da un corto circuito in soffitta, che aveva ustionato una delle nostre figlie», ricorda.
Oggi vive in autonomia, accanto a uno dei figli, e non lontano dalla Madonna della Cascata, il capitello che ha fatto installare oltre trent’anni fa all’ingresso del Parco dell’Adige. «La vita mi ha insegnato che ci sono momenti difficili, ma anche tanta felicità – conclude –. La croce bisogna saperla portare, però dopo le nuvole nere il sole torna sempre a splendere».
Adriana Vallisari
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