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«Leggere, un piacere alla portata di tutti»

di ADRIANA VALLISARI
L'esperto: è faticoso ma gratificante, stimola l'immaginazione, nutre il singolo e la collettività  

«Leggere, un piacere alla portata di tutti»

di ADRIANA VALLISARI
La pittura ha resistito alla fotografia, il teatro al cinema, la radio alla tivù, il libro all’e-book. La storia dei media ci mostra che le nuove tecnologie non soppiantano le vecchie: casomai, le trasformano, ma coesistono. Allora forse possiamo guardare alla rivoluzione digitale in atto con un po’ più di ottimismo. Specie se a farci da bussola è Marino Sinibaldi, giornalista, critico letterario e storico conduttore radiofonico: è stato direttore di Rai Radio 3 dal 2009 al 2021 e ideatore della fortunata trasmissione Fahrenheit.
Da un paio d’anni ha prestato la sua competenza al Centro per il libro e la lettura, istituto autonomo del ministero della Cultura, di cui è presidente.
– Il Centro per il libro e la lettura promuove la lettura fin dalla tenera età. Verona quest’estate ha stipulato il vostro “Patto locale per la lettura”, finalizzato alla candidatura a “Città che legge”: che significato ha?
«Firmando il Patto, un Comune sottolinea la centralità della lettura. È un gesto più simbolico che materiale, visto che oggi l’accesso ai libri è illimitato e più facile che in passato. Ma è importante proprio perché mostra che il Comune è vicino a chi lavora sull’educazione alla lettura e mette in rete una realtà varia, fatta di tante cose piccole, se vogliamo, ma molto ricca. La lettura non è solo un bel passatempo: è un elemento di coesione sociale, di riconoscimento collettivo. C’è dietro un’idea di cittadinanza, per cui le biblioteche assumono un ruolo fondamentale».
– In Italia si legge troppo poco? Perché?
«Si legge da sempre troppo poco, per tante ragioni, legate alla storia della nostra scuola e all’alfabetizzazione del nostro Paese; un po’, anche per la cronica indifferenza della politica per la lettura. Nella pandemia invece è accaduta una cosa strana: è cresciuta la passione per la lettura, ma non è esploso il numero dei lettori. Poi però vediamo che i festival letterari godono di un’ampia popolarità e questo apre delle riflessioni: c’è una specie di via italiana alla lettura, che privilegia forme pubbliche che passano dall’incontro».
– Qual è l’identikit del lettore italiano, oggi?
«I dati dicono che legge poco più del 40% della popolazione. Ma c’è un 15% di lettori forti che tiene in piedi il mercato librario: è una minoranza, ma non così piccola, caratterizzata da grande qualità e passione. Durante la pandemia, comunque, abbiamo assistito a una polarizzazione: c’è chi di fronte al tempo vuoto ha smesso di leggere, scoprendo magari le serie tivù, e chi ha letto ancora di più».
– Non sembra pessimista...
«Non lo sono. Bisogna parlare di lettura in senso più ampio, guardare come girano i prodotti culturali, considerare i circoli dei lettori e le attività delle biblioteche e delle scuole, che ridimensionano i dati. Preoccupante, semmai, non è tanto che la lettura sia un’attività minoritaria ma che questa minoranza sia troppo specifica: si legge nelle città grandi, perché biblioteche e librerie sono concentrate soprattutto al Nord, e dentro determinate fasce di reddito e istruzione. Il rischio è dunque che aumentino le differenze e che in una società plurale come la nostra la lettura fatichi ad allargarsi dalla sua nicchia. Bisogna educare le persone a cercarla: oggi, col digitale, la cultura è ovunque».
– Quindi la tecnologia non è necessariamente il nemico?
«No, è un enorme potenziale alleato. Ma sottolineo potenziale: perché si trasformi in un fatto occorre un’educazione collettiva. L’aumento delle tecnologie dovrebbe far crescere la ricchezza delle nostre esperienze, il rischio è che le riduca. Quindi la tecnologia da un lato è un competitore, perché interviene sulla disponibilità di tempo e sul nostro desiderio di ascoltare storie; dall’altro è un alleato, perché se non si guarda al libro come oggetto in sé, ma ai valori contenuti nella lettura, ci sono altri modi per diffondere conoscenza, condivisione ed emozione. Poi, certo, abbiamo imparato che sono esperienze diverse: leggere Guerra e pace e poi vedere il film, non è la stessa cosa. Pur ammirando la splendida Audrey Hepburn al cinema, pensai che la mia Natasha Rostova era meglio».
– Questo perché sfogliando le pagine ci immaginiamo personaggi e ambientazioni. Leggere costa fatica, richiede uno sforzo cognitivo, come imparare le poesie o saper far di conto. Eppure è uno sforzo necessario all’esercizio del pensiero.
«Mi piace che citi l’aspetto della fatica, di solito sottaciuto. Specie in una cultura essenzialmente visiva come la nostra, leggere è impegnativo e lo vediamo soprattutto nei ragazzi, che faticano a concentrarsi. Ecco come mai hanno così tanto successo le graphic novel e i manga, cresciuti del 90% in due anni: è la dimostrazione di una reazione a una cultura visiva. Perché un libro sprigioni la sua bellezza devo esercitare l’immaginazione. È un lavoro che devo fare io, per il film non serve: occorre che mi concentri sulla pagina, anziché essere avvolto da un’esperienza pluri-sensoriale. Ma immaginare ciò che non c’è ci dà una qualità enorme. L’immaginazione è fondamentale, si esercita troppo poco nella contemporaneità, avrebbe dei risvolti importanti».
– Quali? «Immaginazione e immedesimazione sono le qualità umane, sociali e politiche più importanti del nostro tempo. In questo, l’intensità e la qualità dell’esperienza della lettura ci rendono capaci di visione e ci permettono di capire meglio la nostra vita collettiva. Avere parole per esprimersi, per far valere un proprio diritto, per convincere qualcuno o persino per vendere un prodotto, ci dà dei vantaggi. Nella vita quotidiana e pure in una dimensione più ampia: viviamo in una realtà complessa, talvolta difficile da decifrare; ma complessa significa anche affascinante, piena di bellezza e possibilità».
– Poi però vediamo che il dibattito pubblico è appiattito e al posto delle discussioni civili vincono gli insulti. Non le pare che oggi l’ignoranza esibita sia quasi un vanto?
«Questo è un processo serio e grave. Nella povertà di argomenti e di linguaggio, vince chi ne ha meno, chi semplifica. Credo molto alle parole, perché dietro ci sono le idee e perché il loro esercizio fa crescere i pensieri. Pensiamo alla canzone d’autore o, più recente, al rap (sulla rivista Sotto il Vulcano, diretta da Sinibaldi, Walter Siti tiene una rubrica in cui analizza i testi delle canzoni trap, ndr), oppure alla politica: quand’ero piccolo io, nel mio quartiere lo scontro era durissimo, però poi democristiani e comunisti dovevano aprirsi gli uni agli altri nella vita quotidiana. Le diversità non laceravano la società, poiché c’erano elementi condivisi: oggi è difficile, ognuno è nella propria bolla rassicurante. È un paradosso: abbiamo mille possibilità di entrare in contatto col mondo, ma abbiamo più paura di prima».
– Lo stesso vale per l’opportunità di conoscere le notizie, mai così numerose, eppure ci sono sempre meno persone disposte a informarsi: la chiamano news fatigue. Come se ne esce?
«Anche qui bisogna re-immaginarsi, e non è facile. Noi giornalisti eravamo i mediatori accreditati tra due mondi, oggi siamo visti come un anello superfluo tra la notizia e il lettore. In realtà, come dimostrano le fake news, ci sono buoni motivi per cui quel tipo di informazione debba sopravvivere, dobbiamo semmai renderla compatibile e desiderabile. Combattere la semplificazione sulla rete è una battaglia eroica, ma bisogna farla». 

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