Il mondo è in ripartenza la scuola rimane al palo
Se ne riparla a settembre, ma mancano idee e fondi. La scuola che non riesce a costruire il suo futuro nel dopo-Coronavirus
Ripartono praticamente tutti, meno la scuola italiana. Ragioni di salute pubblica, combinate con la mancanza di piani alternativi alla didattica a distanza, impongono di rinviare l’apertura delle scuole a settembre. Ma ancora nessuno sa come, o addirittura se le scuole riapriranno. Si pensi solo ai problemi di trasporto degli studenti in autobus a capienza estremamente ridotta. È opinione comune che soprattutto gli studenti più giovani necessitino della didattica dentro la scuola, ma si attendono direttive ministeriali mentre già si sa che non arriveranno (per ora) fondi a sostegno di scuole elementari, medie e superiori paritarie, che pure rischiano molto. Una scelta politica che fa molto discutere e che si spera venga superata dagli emendamenti al corposo decreto Rilancio.
(Foto Siciliani-Gennari/Sir)
E a settembre, come si ripartirà? «Forse un po’ in classe e un po’ a casa»
«Colpita, ma non affondata». Nell’emergenza Covid-19, la scuola si è mossa come un sottomarino. «Guardinga e sempre costretta all’immersione, ma assidua e attenta». È questa l’immagine che meglio rappresenta gli sforzi del mondo educativo in questi ultimi tre mesi, secondo il professor Stefano Quaglia, già dirigente dell’Ufficio scolastico provinciale, alle spalle una lunga carriera che ne ha fatto un esperto di sistemi educativi.
Mentre si avvicina la fine di quest’anomalo anno scolastico – con tutte le incertezze del caso – già si guarda al nuovo a.s. 2020/2021, il primo post-pandemia. Un rientro da programmare, che porta con sé sia dei problemi pratici (evitare gli assembramenti, ripensare agli spazi in aula, garantire una sanificazione costante, ecc.), sia legati alla didattica (adattarla a nuove modalità, consolidare ciò che è stato appreso a distanza…). Mancano grossomodo cento giorni al suono della campanella d’inizio: ma con l’estate di mezzo non è un’eternità per chi, a Roma, dovrà decidere. Si aprirà all’insegnamento differenziato in piccoli gruppi? Si faranno settimane alternate, un po’ in presenza, un po’ in video? Nulla, ancora, è scritto nero su bianco.
– Prof. Quaglia, come si potrà tornare a fare scuola in maniera accettabile?
«Diverse ipotesi sulle “regole” del ritorno in classe sono state avanzate nei giorni scorsi dai vertici ministeriali e dalla stessa ministra, e sono state accolte con un fuoco di fila. È emersa una questione ineludibile per l’organizzazione scolastica, ovvero la continuità spazio-temporale: non si può pensare di intervenire sullo spazio senza che ne sia influenzato il tempo, né si può giocare col tempo senza che venga investito lo spazio».
– Cosa significa, nel concreto?
«Si tratta di una partita complessa, che deve tener conto dei tre protagonisti in gioco: soggetti, aule e giorni di frequenza. È pensabile che si alternino gruppi di studenti di tre giorni in tre giorni, come immaginato dalla ministra? A me pare davvero poco opportuno e antieconomico. Tanto più che l’unità di misura del tempo scolastico è la settimana. Che facciamo? Accogliamo in classe per tre giorni il gruppo A, facendolo poi stare a casa ad ascoltare di nuovo le stesse nozioni in video, perché gli insegnanti devono riproporre la lezione al gruppo B? È un controsenso. Pensiamo semmai a un miglior tempo di turnazione».
– Qualche idea?
«Sarebbe opportuna una frequenza alternata di una settimana, come minimo, per la secondaria di primo grado, e di due settimane per gli istituti di secondo grado. A casa si approfondisce il programma affrontato a scuola, con video, podcast e altre modalità digitali; poi si torna tra i banchi e si fa una verifica. In ogni caso occorrerà utilizzare entrambe le didattiche: sia quella in presenza che quella a distanza».
– Ritiene che questa modalità mista ci accompagnerà ancora a lungo?
«Vedremo come evolverà la situazione sanitaria, ma è probabile che almeno fino a dicembre si andrà avanti con la didattica a distanza. Non dimentichiamo che la scuola è un sistema ad alta densità e richiede le dovute cautele: ci sono istituti dove tutte le mattine 1.500 persone si ritrovano insieme, il che costituisce un potenziale bacino per la diffusione del virus. Prendiamo, ad esempio, piazza Cittadella, in centro città. Se con un compasso tracciassimo un cerchio con un raggio di 500 metri, lì troveremmo non meno di diecimila persone ogni giorno: tale è la concentrazione della popolazione giovanile che frequenta gli istituti della zona e una delle sedi dell’Università di Verona. Prevedere entrate scaglionate con questi numeri è impossibile, anche a livello di trasporti e di traffico».
– La didattica a distanza si può adottare con gli studenti più grandi, ma per i gradi iniziali? È difficile immaginare una bambina che fa il suo ingresso in prima elementare e impara a leggere e a scrivere da casa…
«No, infatti. Lì la partita è durissima. La relazione in presenza, nell’infanzia e nei primi anni della primaria, è una condizione indispensabile per l’efficacia dell’azione educativa e non si può delegare alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Per i bambini più piccoli si devono trovare spazi adeguati: e devono essere i Comuni, magari coinvolgendo associazioni e parrocchie, a studiare delle soluzioni innovative per garantire le distanze. Ricordando che non c’è una risposta valida per tutti: ogni realtà dovrà analizzare la situazione nello specifico».
– In alcune regioni, come in Piemonte, ci sono sindaci che non hanno aspettato e hanno riaperto le scuole primarie, lavorando su piccoli numeri. Che ne pensa?
«Di fronte alla difficoltà ogni tentativo di uscirne va accolto, con prudenza e concretezza, ma senza preconcetti. Il primo passaggio non è la ripresa della scuola: quella, in fondo, non si è mai interrotta del tutto, grazie alla tecnologia. Il problema è la convivenza, la condivisione degli spazi e la compresenza nei tempi. Non sarà facile. Perciò ben vengano tutti i tentativi intelligenti e monitorati, non improvvisati. Certo, sarà più delicato estendere le pratiche pilota dai piccoli numeri ai grandi sistemi. Di sicuro saranno agevolate le zone periferiche; paradossalmente quello che prima era considerato un problema, oggi si rivela una possibile via di salvezza. Sarà più facile trovare spazi vuoti a Erbezzo, rispetto a Borgo Roma...».
Adriana Vallisari
Pioggia di fondi dal Governo ma non per le paritarie
Una fetta consistente dell’istruzione tagliata fuori dalle misure del decreto Rilancio. Le scuole paritarie non beneficeranno delle risorse straordinarie previste dal Governo, se non in minima parte. A dirlo sono i numeri dell’ultima versione del provvedimento: un miliardo e mezzo di euro di stanziamento per la scuola statale, 150 milioni di euro per le paritarie (suddivisi così: 80 per la fascia zero-sei, 70 per primaria e secondarie, ma soltanto fino ai 16 anni). Nessun accenno al sostegno delle famiglie che in questi mesi di quarantena hanno pagato le rette.
Nei giorni scorsi era scesa in campo pure la Cei, la Conferenza episcopale italiana, per ricordare che le paritarie “svolgono un servizio pubblico caratterizzato da un progetto educativo e da un programma formativo perseguiti con dedizione e professionalità”. I vescovi italiani hanno sottolineato come queste realtà permettano al bilancio dello Stato “un risparmio annuale di circa 7.000 euro ad alunno: indebolirle significherebbe dover affrontare come collettività un aggravio di diversi miliardi di euro”.
Anche in riva all’Adige si monitorano con apprensione le scelte romane. «Spiace che il Governo non abbia colto l’occasione di quest’emergenza per rendersi conto di quanto le scuole paritarie siano utili al Paese: danno da lavorare a 160mila persone e accolgono 900mila studenti – riconosce Umberto Fasol, preside dell’Istituto “Alle Stimate” –. Facciamo un servizio pubblico e meritiamo il giusto supporto». A livello nazionale, è stato lanciato l’allarme: senza fondi adeguati, a settembre il 30% degli istituti rischia di non riaprire. «Diversi genitori in questi mesi hanno chiesto una riduzione della retta, che al 90% serve a pagare lo stipendio a docenti e personale scolastico – spiega il dirigente –. Se le famiglie italiane si impoveriranno nei prossimi mesi, a causa della congiuntura negativa, è chiaro che diminuirà la fetta di chi potrà mantenere la retta, aprendo così uno scenario di sofferenza per molte scuole. Al contempo, però, gli enti pubblici dovranno ragionare in termini di convenienza: è meglio finanziare una parte della retta, in modo che queste scuole sopravvivano, o trovare nuovi spazi da zero e assumere personale per accogliere questi studenti?».
Si dice comunque fiducioso Fasol, pensando ai 950 alunni e ai 60 docenti delle “Stimate”, che in queste settimane si sono attrezzati con le lezioni a distanza, facendo 3-4 ore di diretta al giorno. E confida in due cose. La prima è che il prossimo anno possa ripartire il più possibile nel segno della normalità. «Capisco che si debbano tenere le porte aperte a tutti gli scenari possibili, però mi auguro che la situazione sanitaria migliori durante l’estate – auspica –. La didattica a distanza va bene per un periodo, ma la relazione educativa richiede presenza e contatto».
La seconda riguarda uno spauracchio all’orizzonte: il concorso per le cattedre statali, che potrebbe avere come effetto collaterale l’erosione di insegnanti alle paritarie. «Il bando pare escludere chi ha lavorato da noi, ma non si ha mai la certezza fino alla fine», conclude cauto. [A. Val.]
La scuola che non riesce a costruire il suo futuro nel dopo-Coronavirus
In un dibattito televisivo di metà maggio, TeleArena aveva radunato alcuni presidi di prestigiosi istituti veronesi (Maffei, Angeli, Pasoli-Copernico, Anti) e il provveditore Albino Barresi, per capire lo stato dell’arte della scuola, e soprattutto per delineare il futuro prossimo. Perché questo anno scolastico sta ormai volgendo al termine a forza di connessioni via computer e valutazioni a distanza; ma il prossimo che si avvicina?
Dibattito sconfortante, perché è di tutta evidenza che il sistema dell’istruzione italiana ha in mano una sola prospettiva: che tutto passi, che tutto si sistemi. Un piano B non c’è. Oppure c’è: ci si inventerà qualcosa al momento, se i ragazzi non dovessero tornare fisicamente a scuola a metà settembre, e poi si vedrà.
È così in tutta Europa? Più o meno. In Germania le lezioni sono riprese, con modalità che abbracciano dodici ore della giornata. In altre parti si va verso la fine anno pensando a quello prossimo. L’unico Paese rimasto sostanzialmente al palo è l’Italia. Ma è anche vero che è l’unico Paese al mondo ad avere un ministro dell’Istruzione del Movimento 5 Stelle, Lucia Azzolina. Sono cose che si pagano.
La verità è che la situazione è veramente complessa e cade su un mondo, quello scolastico, che già di suo andava in tilt se c’era bisogno di una fornitura di carta igienica supplementare. Spesso gli edifici sono vetusti, inadeguati e al contempo stipati all’inverosimile: ai licei le classi da 30 alunni non sono certo una rarità. Non si tratta degli ampi campus o college anglosassoni, ma di spazi ristretti posizionati in zone centrali delle città. Con tutti i conseguenti problemi di trasporto scolastico.
Perché un altro quesito grande come una casa è quello di come arriveranno a scuola, gli studenti. In bus e treni che ridurranno la loro capacità ad un quinto di quella attuale? Cioè ad un decimo di quella reale, considerata la situazione di saturazione delle corse nei momenti di punta? Decuplichiamo i bus? Impossibile. Tutti a scuola portati in auto? Verona andrà in tilt anche nei giorni non piovosi. E si tenga conto che incombono le ristrettezze causate dai lavori del filobus…
E le mense scolastiche? E i doposcuola? E le ricreazioni in cui tutti sono a contatto di tutti? E la sanificazione continua di spazi vastissimi fatta da chi, come e quando? E la salute degli insegnanti?
Così che certe boutade uscite dagli ambienti ministeriali (scuola nei teatri, nelle palestre, nelle sale civiche, ci mancavano solo gli zoo e i planetari), sono state accolte dagli addetti ai lavori con un sorriso e una scrollata di spalle: chi le fa, non conosce la scuola italiana.
Altro problema grande come una casa: i bambini delle elementari non possono fare scuola dietro a un computer. Non puoi chiedere a un bimbo di sei anni di imparare a leggere e scrivere tramite il tablet mal connesso di un genitore, nel chiuso della sua stanzetta. Poi, una questione che è opinione comune di tutti gli insegnanti dopo questi tre mesi di didattica a distanza: è impossibile valutare, ma anche seguire gli studenti con queste modalità, un quadratino in un angolo di computer. Non si riesce nemmeno a capire se lo studente stia seguendo, dormendo, chattando con gli amici, copiando a tutto spiano...
Insomma piano A: sperare. Speranza che a oggi è stata negata alle scuole paritarie, destinatarie di nessun contributo pubblico per esplicito volere della ministra Azzolina. Si era fatto presente, anche da parte di esponenti della maggioranza, che le scuole paritarie saranno le più danneggiate da questa situazione. Che avranno costi a loro carico aumentati a dismisura, con rette non toccabili e con il rischio di perdere iscrizioni.
Ma da una parte c’è una fazione non irrisoria delle forze al governo che ha fatto suo il tipico grido da stadio: devi morire! E poi c’erano da dare altri 3 (tre) miliardi di euro all’Alitalia affinché li bruciasse rapidamente e inutilmente, come al solito. Vuoi mettere il destino di qualche centinaio di piloti e steward, rispetto a quello di centinaia di scuole e centinaia di migliaia di studenti?
Nel frattempo, godiamoci le ultime indecisioni dell’anno scolastico: si boccerà sì, no, forse, in che modo? Si farà l’esame di maturità? Come? Mancherebbero due settimane… Si rimanderà (e come) coloro che hanno zoppicato in certe materie? E di grazia – cara ministra – chi e come assorbirà centinaia di migliaia di studenti delle scuole paritarie, se queste domani chiudessero i battenti? L’Alitalia?
Nicola Salvagnin
L’esame di maturità a... singhiozzo che fa impazzire studenti e famiglie
Maturità 2020. Il conto alla rovescia scatta alla fine di febbraio quando l’adrenalina comincia a salire e i giorni scorrono veloci, barrati con una croce sul calendario sopra alla scrivania. Ci siamo passati tutti, si sa, la maturità è una delle prove della vita che ti ricordi per sempre. Ansie, tensioni e preoccupazioni che riemergono quando ti ritrovi con un maturando in casa. Certo, si sapeva che sarebbe stato un anno scolastico particolare, ma non ci saremmo mai immaginati di dover affrontare, oltre all’emergenza Coronavirus, anche il fronte caotico e incerto di una maturità che ci avrebbe catapultati in un turbinio emotivo che ricorda più un viaggio sulle montagne russe piuttosto che una tappa della vita. Mentre il Paese lottava con l’emergenza Coronavirus la scuola brancolava nel buio. Anzi no, diventava quasi il paese dei balocchi dove tutto è possibile. Era febbraio: tutti a casa. Una notizia accolta in famiglia con l’euforia delle vacanze estive ma che nel tempo sciamava, rimpiazzata da ragionevoli pensieri: “Bene, ho qualche giorno in più per studiare e mi fa anche comodo perché devo recuperare”. Se non che, con l’aggravarsi della pandemia, all’inizio di marzo le scuole chiudevano per sempre i battenti portando con sé il ricordo delle interrogazioni lasciate in sospeso e il timore di non avere la possibilità di sistemare quelle materie che scricchiolano. Arrivano così anche a casa nostra le videolezioni a distanza con problemi di connettività, le inevitabili incomprensioni, le liti quotidiane tra fratelli per l’accaparramento della dotazione tecnologica meno vetusta. E così si va avanti fino all’alba di aprile quando la ministra dell’istruzione Lucia Azzolina, stendendo un velo di indulgenza e bonarietà su tutti gli studenti italiani, annunciava: tutti promossi. «Quindi vuol dire che siamo tutti ammessi alla maturità?», si commentava a casa nostra. Non si sa. Mentre annaspavamo alla ricerca di qualche notizia, lo scenario dell’esame di Stato mutava velocemente con l’abolizione della prova scritta e la prospettiva di un maxiesame orale on line che già seminava il panico. Una decisione che a distanza di qualche settimana, come per incanto, si è trasformata in un colloquio in classe davanti a professori in carne e ossa. Che non ci dispiaceva affatto. «Tu cosa preferisci? Come lo vorresti?», le chiedo. È laconica, sfuggente, irritabile in questo periodo. «Dal vivo», risponde. «perché è sempre una prova importante e sarebbe un primo passo per tornare alla normalità…». Non la facevo così saggia. «E poi on line… se salta la connessione oppure non funziona bene il microfono»”, aggiunge svelando inconsapevolmente il proprio stato d’animo. Dopo la metà di aprile arriva la conferma della commissione composta da insegnanti interni e da un presidente esterno e tiriamo un sospiro di sollievo. Ma resta ancora nebbia fitta sulle modalità di svolgimento della prova. In maggio la ministra dell’Istruzione annuncia il ritorno della tesina sulle materie di indirizzo, l’umore risale: «Bene, me la preparo e studio con cura e mi sento più sicura», mi dice. Ma gli insegnanti non dicono niente. Serve, non serve, non si sa. Nessuno si sbilancia e il tempo stringe. Ai proclami non seguono riscontri, mancano le istruzioni e di conseguenza regna l’incertezza che crea tensione. Durante il giorno ci si vede poco, chi studia, chi lavora. Così è all’ora di cena che arriva l’immancabile “bollettino maturità”: «Il Corriere ha scritto, l’insegnante dice… la ministra deve decidere se… questa è una fake news, aspettiamo la circolare del dirigente…». Un giorno si dice una cosa, il giorno dopo un’altra. Un tira e molla continuo che a lungo andare ci strema. Fra intemperanze, slanci di entusiasmo, momenti di nervosismo e di sconforto la tenuta dell’equilibrio familiare è stata messa a dura prova. Poi quando sembra che le cose comincino a prendere vagamente una forma, il vento soffia ancora contrario. Se fino a ieri almeno una cosa pareva certa e cioè che il colloquio orale si sarebbe svolto a scuola, venerdì mattina riviviamo attimi di paura leggendo che il Consiglio superiore della pubblica istruzione ha di fatto bocciato il piano della ministra Azzolina perché manca il protocollo di sicurezza. Ma già domenica la ministra dell’Istruzione annunciava che “gli studenti hanno diritto a fare gli esami in presenza con mascherina e a distanza”. Resta sempre in campo, però, anche l’opzione di farla video nel caso il virus ritorni in forma acuta. A poco più di un mese dall’inizio dell’esame (mia figlia mi fa notare che oggi, 15 maggio, mancano esattamente 33 giorni) la Maturità resta ancora un enigma per tutti. In questo tempo tumultuoso, vorremmo che ognuno fosse chiamato al senso di responsabilità e che qualunque cosa succeda a questa Maturità – che passerà alla storia per le circostanze particolari in cui si svolgerà – possa essere comunque ricordata come una tappa importante della vita e un trampolino di lancio verso la normalità.
Lidia Morellato