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«Dedicandoci agli altri ci realizziamo come persone»

di PAOLO ANNECHINI
Marco Schena e Giulia Cattafesta con i loro sette figli operano in una missione in Perù

«Dedicandoci agli altri ci realizziamo come persone»

di PAOLO ANNECHINI

Marco Schena di Pescantina e Giulia Cattafesta di Isola della Scala si sono incontrati ancora quindicenni frequentando le attività dell’Operazione Mato Grosso. Hanno sempre desiderato una vita vissuta nella completa gratuità a servizio degli altri. Sono partiti nel 2012 per il Perù nella missione di Yungay, a 2.500 metri sulle Ande, con due figli piccolini: Alice e Paolo. E poi sono arrivati Elia, Simone, Davide, Tommaso, Ugo. Sono rientrati per qualche mese, hanno partecipato anche alla veglia dell’invio missionario organizzata dalla Diocesi di Verona nell’ottobre scorso. Li abbiamo incontrati poco prima che ripartissero nella pieve di Santa Lucia di Pescantina, in una casa messa a disposizione della parrocchia.
Pronte le valigie?
Marco: «Pronte è una parola impegnativa, diciamo che ci stiamo lavorando…».

Nove biglietti aerei da comprare, solo a pensarci viene qualche brivido…
Marco: «Anche a noi! Siamo sotto, come sempre, ma qualche amico provvederà. È la Provvidenza».

Già, la Provvidenza. Matti o santi?
Giulia: «Né l’uno, né l’altro, sicuramente. Fin da giovanissimi, anche prima di conoscerci, abbiamo cercato altre strade. Quello che ci proponeva il mondo non ci soddisfaceva, cercavamo altro».

Altro cosa?
Giulia: «Una vita dedicata, nella totale gratuità. Quello che sappiamo dare non sono competenze che non abbiamo, ma il tempo che possiamo mettere a disposizione gratuitamente. Abbiamo capito che dedicandoci agli altri ci realizziamo come persone».

In tutto questo che ruolo ha la fede?
Marco: «Ci eravamo allontanati da una Chiesa fatta di riti, cercavamo una fede vissuta, praticata. L’esempio di p. Ugo De Censi, fondatore dell’Operazione Mato Grosso (Omg), ci ha decisamente cambiati. E poi molti incontri e molte testimonianze, tra queste quella di Giulio Rocca dell’Omg, ucciso in Perù nel 1992. Nelle sue lettere scrive: “Bisogna regalare tutto, ma proprio tutto della tua vita”».

Come vivete a Yungay?
Giulia: «Viviamo una vita comunitaria, che vuol dire la nostra famiglia assieme ad altri 15 ragazzi che negli anni si sono aggiunti e vivono con noi. Facciamo una vita molto semplice, legata ai ritmi della natura. Quasi tutti a Yungay sono contadini, seguono il ritmo delle stagioni, delle semine, dei raccolti. Tutti i bambini a Yungay giocano per strada, si cammina molto. Siamo ai piedi di montagne enormi, bellissime».

E cosa fate?
Marco: «Tutti i giorni, come missione, diamo ascolto a una cinquantina di persone che bussano alla nostra porta, alle quali offriamo anche una tazza di tè e qualcosa da mangiare. Diamo un aiuto concreto in alimenti a 300 anziani una volta al mese, andandoli a trovare. L’attività principale però è la scuola: dall’asilo alla scuola secondaria per 370 alunni dalle 7.30 alle 16. Abbiamo una pasticceria con 11 lavoratori, dei quali 9 con disabilità. E poi gli orti che impiegano 200 donne, spesso mamme in estrema difficoltà. E per finire la falegnameria dell’associazione Artigianato don Bosco, con 18 ragazzi. Oltre a questo, il sabato e la domenica animiamo l’oratorio con 200 ragazzi: il sabato danno un aiuto concreto per i poveri, la domenica fanno attività ricreativa, il catechismo e si conclude con il pranzo. È la logica dei piccoli passi che aprono grandi porte».

Che vuol dire…
Giulia: «L’ascolto e il cercare di risolvere bisogni ha sempre indicato la strada della missione di Yungay. Alice, la nostra prima figlia, è disabile. Siamo arrivati con lei piccolina in missione e l’abbiamo inserita nella scuola. Le mamme vedendo che nostra figlia andava a scuola, hanno chiesto se anche i loro figli disabili potevano partecipare. Non se lo erano neppure immaginato prima. E così, da 4 ragazzi con disabilità, ora sono 16. Ma anche i ragazzi disabili diventano grandi, e finita la scuola che impiego possono fare? Ecco allora la pasticceria, dove su 11 lavoratori, 9 sono disabili. Altro esempio: alcune mamme poverissime chiedevano soldi per comprare il materiale scolastico ai loro figli. La missione con loro ha creato il progetto orti, ovvero lavorano producendo verdura, prendono un piccolo stipendio, la verdura serve per il pranzo nella scuola e quello che rimane lo diamo gratuitamente alle altre scuole del vicinato. In questo senso piccoli passi, su bisogni concreti, aprono orizzonti molto grandi, inaspettati».

Da 12 anni vivete di Provvidenza. Cosa vuol dire?
Marco: «Vuol dire guardare la vita con gli occhi di chi deve ringraziare sempre, di chi deve chiedere e stare bene in mezzo agli altri. Dopo 12 anni di missione posso dire che non ci è mai mancato nulla».

Essere missionari per voi cosa significa?
Marco: «Per noi vuol dire andare dove c’è un bisogno, inviati da amici che ti sostengono, lavorare gratuitamente, vivere di Provvidenza, mettersi nella logica del servizio. I nostri “padroni” sono i poveri che bussano tutti i giorni alla porta di casa nostra».
Giulia: «Essere missionari vuol dire lasciare tutto quello che si ha (casa, amici, famiglia, sicurezze), andare per assumere altre logiche. La porta di casa nostra a Yungay è fisicamente sempre aperta. Sedersi e ascoltare chi bussa è parte fondamentale delle nostre giornate».

I figli come interagiscono?
Giulia: «Abbiamo tutti imparato a vivere in comunità. Abbiamo solo le nostre stanze; il resto, cucina compresa, è in comune con chi vive con noi. Noi qui parliamo dei poveri del Perù, ma a Yungay sono i nostri amici, i nostri di casa, i ragazzi che vivono con noi. Siamo noi i poveri, fa parte della quotidianità… e non ce ne accorgiamo».

La speranza è il tema del Giubileo appena iniziato. Che sapore ha a Yungay?
Giulia: «La speranza è cercare di vivere un mondo diverso, con logiche diverse. Stare con la gente povera ci insegna a vivere senza tante cose, che sembrano essenziali ma in realtà non lo sono. I poveri ci insegnano ogni giorno a ridimensionare i nostri bisogni, a condividere, a far spazio alla solidarietà. Pensare meno a noi stessi, pensare che la vita è bella e dobbiamo viverla nel modo migliore: è questa, secondo me, la strada della speranza».

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