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«Noi quello l’avremmo ucciso»: l’agghiacciante “difesa” di Putin

Accurata inchiesta giornalistica: Navalny avvelenato dai servizi segreti russi

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«Noi quello l’avremmo ucciso»: l’agghiacciante “difesa” di Putin

«Il paziente della clinica di Berlino ha il sostegno dei servizi americani. Ma questo non significa che sia stato avvelenato. Se avessimo voluto farlo, il lavoro sarebbe stato completato». Con queste agghiaccianti parole il presidente russo Vladimir Putin, nel corso della consueta conferenza stampa di fine anno, ha risposto alle domande dei giornalisti sul caso di avvelenamento di Alexei Navalny, il più importante leader d’opposizione nel Paese. L’episodio, avvenuto il 20 agosto scorso, è tornato a far discutere a causa dell’inchiesta pubblicata da un gruppo di testate internazionali tra cui il sito di giornalismo investigativo Bellingcat, la Cnn, il sito russo The Insider, la rivista tedesca Der Spiegel e il quotidiano spagnolo El País. Il dettagliato reportage, disponibile anche on line, sembra provare il coinvolgimento diretto dell’Fsb – l’agenzia di sicurezza interna dello Stato russo, erede del Kgb – nel tentato omicidio dell’avversario politico di Putin.
I fatti risalgono all’estate scorsa. Mentre era in volo da Tomsk (Siberia) a Mosca, Navalny ebbe un collasso: l’aereo a bordo del quale si trovava fu costretto ad atterrare d’emergenza nella città di Omsk, dove l’oppositore fu ricoverato in terapia intensiva. Dopo aver negato l’avvelenamento, i medici dell’ospedale acconsentirono al trasferimento del paziente all’ospedale Charité di Berlino (Germania). Lo staff medico tedesco scoprì la presenza di tracce di novichok, un agente nervino sviluppato dalla Russia tra gli anni Ottanta e Novanta e già usato in passato come arma chimica per attaccare gli avversari del regime. La diagnosi fu confermata da due laboratori indipendenti e dall’Opcw, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche. Dopo circa un mese di coma, Navalny è ora in lento miglioramento e ha già dichiarato di voler rientrare al più presto nel suo Paese.
I governi occidentali hanno duramente condannato il Cremlino per il (probabile) tentato omicidio del leader dell’opposizione. Secondo il reportage pubblicato su Bellingcat, però, nessun’agenzia straniera o internazionale sta attualmente indagando sugli eventuali crimini commessi da Mosca. Il governo russo, d’altro canto, ha sempre negato ogni coinvolgimento, sostenendo che dietro l’azione di Navalny ci siano i… servizi segreti americani: la vicenda sarebbe stata usata solo per screditare l’operato del presidente.
L’inchiesta giornalistica sembra però smentire il Cremlino fornendo per la prima volta nomi e cognomi delle persone coinvolte. Il team investigativo sostiene che l’avvelenamento sia stato organizzato direttamente da alcuni agenti dell’Fsb, parte di un gruppo clandestino specializzato nell’uso di tossine e sostanze velenose. I protagonisti dell’attacco lavorerebbero per l’Istituto di criminologia dell’Fsb, un centro di medicina legale fondato ai tempi del Kgb impegnato nella ricerca su potenziali armi chimiche. L’unità sarebbe guidata da ufficiali di alto livello – appena due ordini di comando sotto al presidente russo – e sarebbe composta da una quindicina di persone, compresi medici e chimici.
Negli ultimi anni, la squadra avrebbe pedinato Navalny in ogni spostamento. L’oppositore avrebbe fatalmente attirato l’attenzione dell’Fsb a partire dal gennaio 2017, dopo aver annunciato la candidatura alle elezioni presidenziali in programma per l’anno successivo. Durante i 20 viaggi fatti in campagna elettorale, almeno due o tre membri dell’Fsb avrebbero seguito Navalny, spostandosi magari con un giorno di anticipo o prendendo voli a orari leggermente diversi. In alcuni casi avrebbero viaggiato usando il loro vero nome, in altri con pseudonimi come il cognome delle fidanzate o delle mogli.
Il copione si sarebbe ripetuto anche nell’agosto scorso: secondo l’inchiesta di Bellingcat, mentre era a Tomsk, Navalny sarebbe stato pedinato da almeno tre agenti dell’Fsb che utilizzavano dei telefoni usa e getta non rintracciabili. Uno di loro, però, Alexei Alexandrov, avrebbe acceso il cellulare personale in almeno due circostanze, agganciandosi alle celle telefoniche della città e rivelando così la sua posizione. Durante la finestra temporale del possibile avvelenamento, inoltre, ci sarebbe stato un forte incremento di telefonate e messaggi tra la squadra operativa sul campo e la dirigenza dell’Fsb a Mosca.
Come Navalny sia entrato in contatto con il gas nervino rimane per ora un mistero. Secondo alcune ricostruzioni, il novichok potrebbe essere stato messo sulla biancheria della camera d’albergo o in una bottiglietta di shampoo. In un’intervista, Navalny ha raccontato che verso le 23.15 del 19 agosto ordinò un cocktail Bloody Mary al bar dell’albergo. Il barista gli disse che non aveva gli ingredienti per prepararlo e gli offrì un Negroni: Navalny ha detto di averne bevuto solo un sorso perché «disgustoso». Poco dopo le 23.15, si addormentò in camera. Negli stessi minuti Alexei Alexandrov riaccese il telefono personale, rivelando la posizione a poca distanza dall’hotel di Navalny.
In un articolo pubblicato a corredo dell’inchiesta, il team investigativo ha spiegato il metodo grazie al quale è riuscito a raccogliere queste prove. Per scoprire l’identità degli agenti alle calcagna dell’oppositore, i giornalisti sono partiti dagli elenchi dei passeggeri dei voli che, attorno al 20 agosto, si erano spostati da Mosca a Tomsk, in Siberia. Il lavoro è stato facilitato dal basso numero di persone presenti a causa della pandemia. Sono così riusciti a risalire ai nomi di tre profili sospetti, uno dei quali aveva prenotato il volo usando la reale identità: Vladimir Panyaev.
Andando a ritroso, hanno scoperto che i viaggi di Panyaev e dei suoi colleghi combaciavano da anni con quelli di Navalny in tutto il Paese: è stato così progressivamente ricostruito il team dell’Fsb che ne seguiva gli spostamenti. I giornalisti hanno poi approfittato delle lasche leggi sulla privacy in Russia per raccogliere un’enorme quantità di dati nel mercato nero: le informazioni provenienti da funzionari infedeli, hacker o aziende private sono state acquistate a buon prezzo. Con circa 100 euro hanno ad esempio comprato i tabulati telefonici e i dati delle comunicazioni via Internet corrispondenti a un determinato numero di telefono. Grazie a queste fonti, il team investigativo ha potuto controllare gli spostamenti degli agenti durante i pedinamenti.
Anche se l’inchiesta non fornisce prove schiaccianti per incriminare il governo russo, conferma che un gruppo di esperti di armi chimiche che, in ultima istanza, rispondeva al presidente Putin, ha pedinato il principale leader dell’opposizione russa per anni ed era a Tomsk nelle ore precedenti al collasso del 20 agosto. Secondo i giornalisti, le coincidenze sono talmente tante che è improbabile che l’attacco non fosse parte di un piano premeditato.
Nel recente passato, l’avvelenamento è stato usato in diverse occasioni dai servizi segreti russi per attaccare gli oppositori del regime di Putin. Si tratta di una strategia efficace perché colpisce la vittima senza ucciderla: un’intimidazione esplicita, quindi, che però non provoca le gravi reazioni internazionali innescate da un omicidio. A differenza di altre tecniche, poi, l’avvelenamento ha il vantaggio della segretezza e rende difficile risalire con certezza agli autori. Questa volta, però, un agguerrito team di giornalisti e investigatori sembra avere trovato il bandolo della matassa, smascherando ogni dichiarazione di facciata.

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