La grande migrazione dei rumeni in tutta Europa nel dopo-Ceausescu
Trent’anni di diaspore, Italia meta numero uno: sono più di un milione
Parlare di migrazioni in queste settimane evoca subito le immagini e le storie delle centinaia di migliaia di profughi ucraini in fuga. La più tragica forma di emigrazione, quella causata dalla guerra e dalla devastazione, che però non è l’unica né la più massiccia. Trattare dell’immigrazione solamente in maniera emergenziale non solo può prestare il fianco a un uso politico strumentale, ma nasconde fenomeni strutturali che da decenni trasformano le nostre società. E i trent’anni di immigrazione romena in Italia ne sono il migliore esempio.
Tre decenni che hanno portato alla creazione della più grande comunità straniera in Italia, composta oggi da più di un milione di persone. A ricostruire questa storia un volume appena pubblicato, Radici a metà. Trent’anni di immigrazione romena in Italia, curato da Miruna Căjvăneanu, Antonio Ricci e Benedetto Coccia, e presentato venerdì 11 marzo. All’inizio dell’incontro, proposto da diverse realtà culturali e accademiche romene e, per l’Italia, dal Centro studi e ricerche Idos e dall’Istituto di studi politici S. Pio V, un primo pensiero va ai profughi ucraini, che tra l’altro vengono accolti in grande numero dalla Romania.
«L’Europa, per come è stata sognata dai suoi padri, è fondata sull’esperienza di essere migranti», ricorda Luca di Sciullo, presidente di Idos. Profughi ma anche migranti economici, spinti da cause meno violente ma spesso altrettanto pressanti. E proprio l’Italia dovrebbe sentirsi chiamata in prima persona, con i 60 milioni di oriundi che vivono in ogni angolo del mondo. Si sa, da noi la memoria è corta, ma questa rimane l’immagine che del Belpaese hanno all’estero, soprattutto presso i popoli che incontrano ora il bisogno di migrare.
Così, dopo la caduta del regime comunista di Ceausescu nel 1989, dei cinque milioni di romeni che hanno lasciato il proprio Paese la maggior parte ha scelto l’Italia come destinazione, come ricorda Ioan Bolovan dell’Università di Cluj. Ma radici più profonde di questo legame trentennale uniscono i due Paesi. Basta ascoltare l’alternarsi della lingua italiana e di quella romena negli interventi dei relatori per rendersi conto della fratellanza: anche per un italiano che non parla affatto romeno è difficile non riconoscere qualche parola, o magari dei suoni che fanno riaffiorare alla mente gli studi scolastici del latino o ricordano la musicalità del portoghese. A testimoniare l’unione della civilizzazione latina, che si estende dalle coste iberiche dell’Atlantico fino alle sponde del mar Nero – quelle romene, appunto.
Radici comuni di Paesi geograficamente distanti. Che coinvolgono anche Verona, dove è presente una nutrita comunità romena, composta da più di 33mila persone. Nella provincia veronese, quasi uno straniero su tre è romeno.
«Le migrazioni non sono un’invasione», ribadisce Antonio Ricci, vicepresidente Idos. Sono innanzitutto uno strumento di ridistribuzione economica a livello globale, grazie ai lavoratori migranti che spediscono in patria una parte dei loro stipendi (in totale, più di 600 milioni di euro annui). Quella lavorativa è anche la forma di integrazione più efficace, nonché il principale driver dei flussi migratori: sono 600mila i lavoratori romeni in Italia, e costituiscono il 2% del Pil. Anche se fenomeni di sfruttamento e di lavoro in nero rimangono all’ordine del giorno.
Le migrazioni sono poi un mezzo di arricchimento sociale e culturale. Perché dietro ai numeri ci sono storie, esperienze vissute e bagagli culturali. «L’unità europea non si fa con gli accordi commerciali, ma con l’incontro, con l’intrecciarsi delle storie e con i riferimenti comuni», sostiene Benetto Coccia, dell’Istituto S. Pio V. In un dialogo che funziona in maniera bidirezionale: sono altrettanto rilevanti, infatti, i flussi di reciprocità e di ritorno in Romania.
Ma il titolo Radici a metà testimonia anche la dimensione tragica della migrazione. Anzitutto quella rappresentata dalle famiglie frantumate, effetto inevitabile delle mansioni nell’ambito del lavoro domestico e dell’assistenza anziani. I ricongiungimenti familiari rimangono spesso difficili. Durante la presentazione del volume si ricordano poi anche le ondate di romenofobia – come quella del 2007 in seguito all’omicidio di Giovanna Reggiani –, cavalcate anche dai politici nostrani.
Le cose sono andate meglio negli anni successivi, probabilmente anche perché sono altre le provenienze geografiche che oggi associamo al “diverso”. Forse che questa storia di 30 anni di immigrazione ci può insegnare un cauto ottimismo, mostrandoci cioè che è solo questione di tempo che ogni alterità venga accettata?
Antonio Ricci riporta i risultati dei suoi studi sociologici: oggi gli immigrati romeni si sentono generalmente accettati, e l’Italia è percepita come una seconda patria. Ancora una volta: radici a metà. «Ma sempre più i romeni in Italia si dichiarano innanzitutto cittadini europei». E in effetti l’entrata della Romania nell’Unione Europea nel 2007 è stato un punto di svolta, anche per la normalizzazione delle migrazioni.
Molti passi rimangono ancora da fare. Ad esempio quello di una vera integrazione politica, come rileva Miruna Căjvăneanu, giornalista e blogger. Forse il grado più elevato di integrazione, quello che testimonia di una cittadinanza attiva e a tutto tondo; è probabilmente la prospettiva di un ritorno futuro in patria a ostacolarla. «Se i romeni votassero di più, acquisirebbero più rispetto da parte dei politici e ci sarebbero meno fenomeni di romenofobia», sostiene Căjvăneanu. La rilevanza numerica delle comunità romene, soprattutto in alcuni contesti locali, può davvero spostare l’ago della bilancia.
Ma in fondo il volume, così come il convegno dedicato alla sua presentazione, vuole essere soprattutto la celebrazione di una reciproca amicizia. È così infatti, con l’esperienza della carne altrui, con l’incontro concreto con le storie degli altri, che si crea una base che nessuna ideologia e nessuna guerra può spezzare.
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