Solo lo sguardo di Dio ci permette di vedere le sofferenze del mondo
Due scene mi prendono il cuore in questi giorni attraversati dalla fatica e dalla paura. La prima mi porta dentro le acque infide del Mediterraneo. Le informazioni, che peccano di difetto, ci dicono che quest’anno almeno 900 persone sono morte annegate nel tentativo di raggiungere le coste italiane...
Due scene mi prendono il cuore in questi giorni attraversati dalla fatica e dalla paura. La prima mi porta dentro le acque infide del Mediterraneo. Le informazioni, che peccano di difetto, ci dicono che quest’anno almeno 900 persone sono morte annegate nel tentativo di raggiungere le coste italiane. La notizia ci passa a fianco, con la freddezza dei numeri, lasciandoci indifferenti, se non anche con un pizzico di cinismo. Che stiano a casa loro! E poi chi è che gli dà tutti i soldi per pagare il viaggio della speranza, pur sapendo che spesso questa speranza annega in fondo al mare?
Così si pensa e così si dice fino al giorno in cui arriva qualche immagine rubata da un cellulare. Magari per ricordarci che qualche volta le macchine sembrano avere occhi e cuore più profondi dei nostri. Immagini che ci raccontano di una giovane donna che la disperazione trascina su un gommone, come un pacco senza appigli.
Ha diciassette anni. Poco prima l’hanno ripescata in acqua, dopo che il barcone su cui viaggiava è affondato. Galleggiava con la forza della disperazione e con quel di più di forza vitale che le madri sprigionano nel difendere le loro creature. Ysuf, il suo bambino, ha solo sei mesi ed è abbracciato a ventosa sul suo petto. L’hanno issata a bordo del gommone di soccorso ed è in quel momento, come se Dio si fosse addormentato nella tempesta, che il bambino le scivola dalle braccia dentro la tomba senza vita.
Il resto è strazio dentro le nostre coscienze indifferenti. I loose my baby (ho perso il mio bambino), where’s my baby? (dov’è il mio bambino?). La grammatica a tratti incespica, ma il linguaggio della disperazione, urlato in quelle scarne frasi, sembra il grido di un dolore cosmico che attraversa i destini dell’umanità di tutti i tempi.
La seconda scena mi porta dentro un ospedale dove un amico, quarantenne, sta lottando perché il Coronavirus non gli rubi l’ultimo pezzo di polmoni che funzionano. Gli mando un messaggio al mattino ed uno alla sera. So che qualcuno glieli mostra, perché lui, prigioniero dentro uno scafandro salvavita, non riesce ad essere autonomo nella comunicazione. I medici sono molto bravi e telefonano tutti i giorni alla famiglia. Siamo speranzosi, dicono, ma senza correre troppo con l’ottimismo, perché non si sa mai... le ricadute... queste situazioni...
Sento la moglie. Ascolto le sue lacrime e sento la fatica che impasta col dolore, per nascondere ai figli la drammaticità del momento. Che fare? Mi rimane solo una certezza: se voglio essere cristiano (e non certo per il giudizio di chi mi conosce) devo uscire pian piano dall’indifferenza che provo davanti ai numeri. Quelli dei morti in mare e quelli dei resoconti quotidiani dei positivi al virus con le sue vittime. Bisogna entrare col cuore dentro ai numeri, perché ognuno di essi, uno per uno, nasconde la narrazione di sofferenze e di lacrime tutte originali.
Questa domenica la Chiesa celebra la festa di Cristo, re dell’universo. Non so se qualche risonanza monarchica la renda meno appetibile. So però che la regalità di Gesù nella nostra vita dovrebbe bussare alle coscienze per seminare l’inquietudine di una domanda: i tuoi occhi vedono come i miei? Il tuo cuore ama come il mio? È allora che scopriamo quanto il giudizio su ciò che accade intorno a noi risenta del sentimento egoistico in cui tutto è misurato sul nostro punto di vista e sui nostri interessi. La rivoluzione cristiana non comincia mai dal cosa fare. Più semplicemente e difficilmente dal come guardare.
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