Schiave per fare i figli per i ricchi del mondo
Ai tempi della globalizzazione basta un po’ di pelo sullo stomaco per scrollare dalla coscienza i drammi che si consumano dall’altra parte del mondo. E l’India non fa eccezione, in questa litania del dolore, consegnandoci ogni giorno qualche notizia da far drizzare i capelli. L’ultima dei giorni scorsi ci racconta di una ragazza di 31 anni, liberata da una schiavitù durata 18 anni...
Ai tempi della globalizzazione basta un po’ di pelo sullo stomaco per scrollare dalla coscienza i drammi che si consumano dall’altra parte del mondo. E l’India non fa eccezione, in questa litania del dolore, consegnandoci ogni giorno qualche notizia da far drizzare i capelli. L’ultima dei giorni scorsi ci racconta di una ragazza di 31 anni, liberata da una schiavitù durata 18 anni. Diciotto lunghissimi anni in cui è stata usata come “fattrice” per mettere al mondo sei creature da vendere a gente ricca col desiderio del figlio a tutti i costi. Caso peraltro neppure unico. È di poco tempo prima la scoperta di un altro episodio analogo, quello di una ragazza liberata all’età di ventinove anni, schiava ad otto e con dieci parti all’attivo. Solo la punta di un iceberg, dentro uno scenario di devastazione umana che toglie il respiro solo a pensarci. Si calcola che nel solo Stato di Jahkaranda, un piccolo polmone di terra tra le città di Varanasi e Calcutta, vengano portate via almeno diecimila bambine l’anno da inviare nei bordelli delle grandi città, oppure destinate ai centri delle cliniche degli uteri in affitto. Sono ufficialmente 1.200 questi centri in tutta l’India, con circa duecento ragazze ciascuno. Almeno 240mila povere creature, prese per la fame e sfruttate per un giro d’affari che oscilla intorno ai tre miliardi di dollari. E non si tratta soltanto di bambini destinati a famiglie indiane che non possono avere figli. Al supermercato degli uteri in affitto arrivano da tutto il mondo. Coppie etero, omosessuali, single, gente desiderosa di farsi fare un marmocchio per riempire vuoti affettivi e, non di rado, per coprire qualche patologia molto più grave. Ha fatto clamore qualche anno fa il caso di una coppia omosessuale di Londra che s’era portata a casa un bambino indiano. La polizia scoprì dopo un po’ di tempo che se ne servivano come boxing bag, ossia come sacco per far esercizio di pugilato, dopo averlo appeso ad una trave, non senza avergli chiuso prima la bocca con un fazzoletto. Del resto nulla di più facile e di più economico di farsi fare un figlio da quelle parti. Si va dai 15 mila euro, ai 28mila nei casi più cari. Piccola cosa rispetto ai tariffari che girano nel resto del mondo.
A questo punto si potrebbe fare del moralismo a buon mercato, puntando l’indice su un Paese, quello indiano, dove a volte si ha l’impressione che la storia si sia fermata. Purtroppo l’India è un Paese di una tale vastità e complessità culturale, etnica e religiosa da offrire tutto e il suo contrario. Cinquemila km. da Nord a Sud, quanti ce ne sono per andare dalla Norvegia al Sudan in Africa, oltre duecento lingue ufficiali, 360 milioni di divinità non solo determinano differenze climatiche e ambientali diversissime, ma giustificano il perdurare di situazioni di povertà e di arretratezza culturale inimmaginabili. Ci sono aree in cui le persone sono ancora completamente nude e dove si pratica solamente il baratto, mentre presso altre tribù la magia nera giustifica ancora i sacrifici umani. In queste sacche di miseria culturale e ed economica diventa difficile mettere i confini alla barbarie umana. Ma ad evitarci inutili moralismi è soprattutto la consapevolezza che è il ricco Occidente uno dei principali sfruttatori di queste povertà. L’Occidente che pretende il figlio per tutti indistintamente: single, gay, coppie variopinte, a tutti i costi e in qualsiasi maniera. Un mercato di esseri umani, che si alimenta al diritto ad avere un figlio, ma che chiude gli occhi sulla catena di schiavitù che stanno a monte, per raggiungere l’obiettivo desiderato.