Quando certe sentenze umiliano la Magistratura
Forse mai come in questo tempo la Magistratura avrebbe bisogno di ritrovare credibilità agli occhi dei cittadini. E non tanto perché l’abbia un po’ persa anche attraverso una progressiva politicizzazione, quanto perché il cittadino ha bisogno di tornare a credere nella giustizia...
Forse mai come in questo tempo la Magistratura avrebbe bisogno di ritrovare credibilità agli occhi dei cittadini. E non tanto perché l’abbia un po’ persa anche attraverso una progressiva politicizzazione, quanto perché il cittadino ha bisogno di tornare a credere nella giustizia. Ne ha bisogno come del pane quotidiano. Se si fa strada l’idea che la giustizia non funziona più, quello è il momento in cui fiorisce l’anarchia sociale, ma anche la voglia di regolare i conti col fai da te. L’occhio per occhio esce così dai tribunali e rischia di trasformarsi in vendetta secondo le antiche logiche tribali. Ma giusto per evitare indebite generalizzazioni, sono convinto che per i magistrati valga la stessa logica che vale per i preti, ossia che la maggior parte di essi è costituita da persone di rigorosa coerenza morale e altrettanto rigorosa professionalità, così come per entrambi vige la logica dell’opinione pubblica, quella che trasforma il caso clamoroso in una patologia di tutto il corpo. Certo, a volte si ha l’impressione che anche certi magistrati ce la mettano tutta per dar ragione ai luoghi comuni, andando a pescare, per la formulazione delle loro sentenze, nei rimasugli dell’equilibrio umano. La conferma ci viene da tre diversi casi, dove la vittima era la donna, in due casi brutalmente ammazzata, nell’altro stuprata. Casi che, dato il loro continuo ripetersi, fanno gridare al Paese il bisogno di leggi più restrittive e di pene certe, senza le scorciatoie degli sconti. E invece? Invece è proprio dalle tre sentenze scandalose che il cittadino si chiede se non siamo al de profundis della giustizia.
Il caso forse più clamoroso ci viene da Ancona, dove tre giudici donne mandano assolto uno stupratore, reo di aver violentato una donna peruviana, in quanto la vittima “presentava un aspetto mascolino” non avvenente. Che tradotto a spanne potrebbe voler dire: se siete belle e vi stuprano, fate denuncia. Se non siete belle, astenetevi. Siete carta da cesso e come tale è giusto che vi usino. Per essere una sentenza che viene da tre donne, c’è da pensare che la rivoluzione femminista sia passata sopra le loro teste, ferme ai tempi del maschio cacciatore, di cui hanno indossato ragionamenti e stile. Se la sentenza di Ancona si commenta da sé, a Genova e Bologna non è che le cose siano andate meglio. Sul banco degli imputati due assassini. Hanno ammazzato le loro compagne e per la brutalità del loro crimine in prima istanza si sono beccati 30 anni di galera. Praticamente un ergastolo. Ma in Appello le cose cambiano. Gli anni diventano 16 che poi, tra sconti e buona condotta, diventano uno sputo. Singolari le motivazioni che consentono tanta abbondanza di sconto. Nel primo caso si parla di “tempesta emotiva” dovuta alla paura della separazione. Nel secondo caso di “delusione”, dovuta alla gelosia. Sarebbe interessante chiedere a questi magistrati quante sono le occasioni nella vita che producono delusione o tempesta emotiva. Magari cominciando dall’autista villano. O dal datore di lavoro che ti dà del finocchio perché è un po’ omofobo. E perché no il direttore di banca che ti ha fatto comprare diamanti farlocchi? Viene da chiedersi se questi magistrati si rendano conto della ricaduta culturale delle loro sentenze. Per ora dovranno spiegarlo al Ministero della Giustizia e alla Procura generale della Cassazione, che hanno annunciato verifiche e azioni disciplinari. La cosa ci lusinga. Ma per sentirci consolati aspettiamo i fatti.
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