Ma le leggi non sono al servizio dei desideri
Uno dei documenti più straordinari custoditi nella Biblioteca Capitolare di Verona è certamente costituito dalle Istituzioni di Gaio. Un codice che non è forzato definire patrimonio dell’umanità. Si di un codice antichissimo, che riporta il diritto romano, com’era nella sua forma più antica, ossia quella del II secolo, diverso da quello in circolazione, e cioè quello rielaborato da Giustiniano nel VI secolo d.C.
Uno dei documenti più straordinari custoditi nella Biblioteca Capitolare di Verona è certamente costituito dalle Istituzioni di Gaio. Un codice che non è forzato definire patrimonio dell’umanità. Si di un codice antichissimo, che riporta il diritto romano, com’era nella sua forma più antica, ossia quella del II secolo, diverso da quello in circolazione, e cioè quello rielaborato da Giustiniano nel VI secolo d.C.
Ma chi era Gaius? Di lui non sappiamo nulla, se non che è morto nel 172. Sappiamo però che era un fine giurista e soprattutto che il diritto da lui elaborato si differenziava fondamentalmente da quello che veniva formulato dalle sentenze dei tribunali. Ciò che lo caratterizzava era che per Gaius il diritto doveva nascere da una filosofia, ossia da una visione della vita, da valori perseguiti, perché coincidenti con il bene sociale. Veniva a cadere così quella visione pragmatica, per cui il diritto veniva dalle sentenze e queste nascevano a loro volto dall’abilità degli avvocati, dal loro potere di argomentazione e di persuasione. Insomma, una giurisprudenza, che non aveva un quadro di riferimento di valori, ma che scaturiva invece dal confronto tra accusa e difesa, lasciando l’ultima parola a chi era più scaltro, più preparato e più danaroso.
Mi venivano spontanee queste considerazioni davanti alle recenti sentenze della Corte di Cassazione in ambiti tanto importanti quanto delicati. L’ultima riguarda l’ingiunzione alle suore di una scuola di Livorno di pagare oltre 400mila euro di Ici in quanto la loro attività sarebbe considerata come attività di lucro. Una sentenza che, se dovesse trovare analoga applicazione nelle altre scuole paritarie, le vedrebbe obbligate a chiudere, con gravissimo danno per gli studenti ma anche per lo Stato, incapace di far fronte, con proprie strutture e propri fondi, al milione di alunni che le frequentano.
Davanti a questa scelta della Cassazione, che giudico ideologica e intenzionale, il cittadino si chiede: ma abbiamo bisogno di un nuovo Gaius per far capire a questi magistrati, in odor di lotta di classe, che la scuola paritaria è un bene comune e non un’opportunità per fare soldi? Se un ragazzo delle scuole non statali costa circa 450 euro, a fronte dei 7.500 di quella pubblica, ci vuole un’intelligenza fuori dalla norma per capire che si tratta di servizio pubblico e non di interesse privato? Dai magistrati ci aspetteremmo l’applicazione delle leggi, magari di quelle europee che indicano, nella parità di diritti, la strada che segna il futuro della scuola stessa.
Ma c’è una seconda sentenza sulla quale è il caso di sostare. La Cassazione ha stabilito che d’ora in poi non sarà più necessario un intervento di demolizione e ricostruzione fisica per cambiare sesso. Per cambiare l’anagrafe non servirà più la mano del chirurgo, perché il “desiderio di far coincidere soma e psiche, anche in mancanza di un intervento, è il risultato di una elaborazione sofferta della propria identità di genere”.
Com’è facilmente intuibile tutto il dibattito sulle teorie del gender, con i tanti punti interrogativi, è stato spazzato via come se fosse anticaglia da macero. Sul campo, maestoso come un monumento alla Vittoria, resta il principio giuridico che non conta più l’oggettività dei fatti, nemmeno quella di un corpo maschile o femminile, sia pure risultato di un intervento chirurgico. Ciò che conta è il mio sentire soggettivo, il mio desiderio. Ossia l’individualismo emotivo come principio generatore del diritto. Forse ancora una volta Gaius ci avrebbe posto qualche domanda. Magari al limite della banalità. Giusto per chiederci dove mai porterà una società dove le leggi non sono al servizio dei diritti, ma soltanto dei desideri.