Predicare bene, razzolare male. La parabola dei Cinque Stelle
Lo confesso senza chiedere attenuanti: non avrei mai pensato che il M5S potesse arrivare alle percentuali con cui è accreditato oggi nello scenario politico. Ricordo un mio editoriale di qualche tempo fa, in cui equiparavo Grillo all’Uomo Qualunque del Dopoguerra e all’effetto meteora del partito che portava il suo nome...
Lo confesso senza chiedere attenuanti: non avrei mai pensato che il M5S potesse arrivare alle percentuali con cui è accreditato oggi nello scenario politico. Ricordo un mio editoriale di qualche tempo fa, in cui equiparavo Grillo all’Uomo Qualunque del Dopoguerra e all’effetto meteora del partito che portava il suo nome. Una protesta continua, e tale era quella del comico genovese, è un po’ come fare la guerra. Dopo un po’ si sente il bisogno di smettere, di tirare il fiato. E non perché si è vinto o perso. Semplicemente perché è contro natura continuare a farsi del male, a vivere sempre sotto tiro, sia che siano pallottole di piombo o quelle verbali. Dio che noiose le persone che continuano a sputar sentenze e brontolare!
Poi, però, il M5S sembrò “indossare” un altro abito, che aveva le grazie della trasparenza e il linguaggio comunicativo della modernità. I candidati venivano scelti con un clic sul computer. Non importa che tante volte fossero solo dei concorrenti allo sbaraglio. Una rivoluzione che mandava al macero le vecchie liturgie dei partiti, mentre apriva le porte del Parlamento al popolo, senza che questi avesse alcun pedigree. Neppure quello di portaborse, strada tanto cara agli sgomitanti di professione, che non amano guadagnarsi il pane col sudore della fronte.
Non si vive di politica, denunciavano i seguaci di Grillo. Quella delle poltrone incorporate al sedere, dei compensi astronomici, delle pensioni scandalose e del rubare come sistema, assunto a metafora di furbizia e intraprendenza. Una ventata di aria fresca, insomma. Almeno così sembrava. Fintantoché la vicenda di Roma non ci ha fatto uscire dall’incanto, ricordandoci che se non si può vivere di politica, non è possibile nemmeno vivere di opposizione. Si fa presto a costruire il consenso parlando male degli altri. Prima o dopo arriva il momento in cui bisogna far vedere di cosa si è capaci, secondo il vecchio detto che tra il dire e il fare...
La verità è che governare domanda fatica e competenza e il M5S a Roma sta mostrando, alla prova dei fatti, che la purezza declamata a parole s’è perduta nelle logiche del potere.
Se la sono presa e se la stanno prendendo coi giornalisti per l’attenzione che riservano al loro caso. Come se inquisiti e professionisti della vecchia politica, tirati dentro tra le loro fila, fossero da considerare uno sbianchettante, alla stregua di un misurino di Dixan. Era solo il 21 dicembre scorso, quando Di Maio, il Barbie del M5S, proclamava che per un politico la presunzione di innocenza non ha ragione di esistere. Salvo usare la doppia morale, una volta seduti sulla poltrona giusta. Con l’aggravante che dopo tre mesi di Campidoglio, non solo non stanno governando, ma neppure riescono a mettere in piedi una Giunta per cercare di farlo.