La vicenda di Enzo Bianchi mostra le ombre umane dentro i tanti meriti
C’è stato un momento in cui sembrava fosse imminente l’elevazione di Enzo Bianchi al cardinalato. È vero che le sue posizioni di frontiera avevano qualche volta scompaginato le certezze moralistiche...
C’è stato un momento in cui sembrava fosse imminente l’elevazione di Enzo Bianchi al cardinalato. È vero che le sue posizioni di frontiera avevano qualche volta scompaginato le certezze moralistiche di ambienti conservatori, ma erano e sono altrettanto evidenti i suoi meriti, che hanno costituito per non pochi credenti una sorgente profetica di grande rilevanza.
I suoi scritti e la sua capacità di dire con lucidità e competenza l’oggi della Parola di Dio trovano pochi uguali nel panorama dei pensatori cattolici contemporanei. Bose, la comunità monastica da lui fondata nel 1963 alla periferia di Biella, era diventata col tempo punto di riferimento per uomini e donne in cerca di Dio. Dall’Italia e dal mondo. Ecumenismo, spiritualità, riscoperta del monachesimo laicale… erano diventati scenari capaci di attrarre cardinali, vescovi e semplici questuanti di fede.
Poi, anche per Enzo Bianchi è arrivato il tempo di fare i conti col tempo, ossia con l’anagrafe e quindi la scelta di lasciare il comando, andando incontro a quella che fu la profezia di Gesù a Pietro, quando gli predisse un tempo in cui altri lo avrebbero portato dove lui non voleva.
Un nuovo superiore scelto a capo della comunità monastica, probabilmente meno carismatico del fondatore benché altrettanto zelante e fedele sulla strada tracciata, ha dato la stura a quella situazione conflittuale di cui le cronache, più o meno partigiane, ci danno resoconto quotidiano.
Dallo scorso anno, dopo la visita apostolica, Enzo Bianchi con altri membri della comunità monastica era stato invitato a lasciare il monastero. Al suo rifiuto, ne era nato un contenzioso, il cui epilogo si sta consumando in questi giorni, con l’addio a quel luogo che lo ha visto mente ispiratrice e custode per tanto tempo.
Sono vari i sentimenti che si impadroniscono del cristiano davanti a queste laceranti situazioni ecclesiali. Il primo è ovviamente di vicinanza ai protagonisti, perché il dolore dei fratelli non può prestarsi a diventare spettacolo per un ghiotto cinismo spirituale sempre in cerca di emozioni su cui spettegolare. Mi ritornano alla mente le parole che Enzo Bianchi scrisse in una sua riflessione sulla conflittualità nella Chiesa: “È necessario che avvengano divisioni, ma questa è opera empia della carne, la cui necessità significa prova, vaglio della comunità cristiana, al fine di mostrare chi sono i veri credenti, i provati, ossia quelli che mantengono l’adesione al Signore anche nell’ora della divisione”. Parole che andavano a completare quelle di un altro passo quando scriveva: “Si sa che agli inizi di ogni avventura comunitaria l’entusiasmo, la carità, la novità dei doni, provvedono a tutto rendendo possibile una comunione e unanimità che non durano nel tempo, ma rimangono una realtà autentica della prima ora”. Facile profezia.
Se mai vi è tristezza su tristezza è vedere come in queste vicende il mondo, cristiani compresi, si presti facilmente a trasformare i protagonisti in uomini partito. Io sono di Pietro, io di Paolo, io di Apollo… con l’unico esito di ridurre una vicenda dolorosa in una faida ecclesiale amplificata, dove le ragioni dei tifosi finiscono per prevalere su quelle della comunione e del perdono. Forse sarà anche per questo che la comunità di Bose ha riportato nel proprio sito una riflessione di papa Francesco: “Nel catalogo delle malattie degli uomini religiosi emerge l’acconsentire a una tentazione-chiave, quella del potere, tentazione posta dal demonio anche a Gesù Cristo e da lui respinta e vinta. Sì, la sete insaziabile di potere rende colui che vi cede capace di diffamare e calunniare gli altri sui giornali e sui blog tramite giornalisti compiacenti, abili persino a odiare su commissione”.
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