Solitudine male del nostro tempo
Ammalarsi di solitudine nell’indifferenza generale. Colpisce soprattutto gli anziani e sarà l’emergenza del futuro. L’affido contro l’isolamento: al via la sperimentazione in quattro Comuni
«La solitudine è sofferenza maledetta non quando si è soli ma quando si ha il sentimento di contar niente per nessuno», disse una volta il fondatore della Comunità monastica di Bose, Enzo Bianchi. Ed è proprio questa la condizione di sempre più anziani non solo nelle città, ma anche nei piccoli centri, dove tuttavia è ancora possibile mantenere una certa rete di contatti con i vicini o con persone che vivono poco distante. Ci si conosce ancora un po’ tutti nei paesi, anche se magari solo di vista. È nata da queste semplici ma concrete considerazioni l’idea dell’affido per anziani.
Ammalarsi di solitudine nell’indifferenza generale
Di solitudine si muore. E non è un modo di dire: studi scientifici hanno dimostrato che l’isolamento sociale ha un effetto dannoso sulla salute, omologo al fumare 15 sigarette al giorno. L’isolamento è capace di accorciare la vita e di produrre una serie di effetti negativi, tra i quali un accresciuto rischio di demenza.
Nel nostro Paese, stando al Rapporto Istat 2018, ci sono tre milioni di persone dai 14 anni in su che dichiarano di non avere, al di là del proprio nucleo familiare, amici o vicini su cui contare, né di far parte di associazioni di volontariato.
È una nemica sotterranea e strisciante, la solitudine, trasversale a tutte le generazioni: dai ragazzi agli anziani. Su questi ultimi si accanisce maggiormente, complice lo sfilacciamento delle reti sociali, la disgregazione delle famiglie e un generale individualismo.
«Anche in Italia ci vorrebbe un ministero contro la solitudine, come quello aperto in Inghilterra un anno fa dalla premier Theresa May». A lanciare la proposta, nel corso di un convegno organizzato dalla Fondazione Pia Opera Ciccarelli la scorsa settimana, è stato il professor Diego De Leo, psichiatra e psicoterapeuta, nonché vicepresidente dell’associazione italiana di psicogeriatria (Aip), realtà che sta portando all’attenzione pubblica questo fenomeno crescente.
La malattia dei nostri tempi
«La solitudine è un problema internazionale e universale, interessa tutti gli Stati – rileva l’esperto –. L’Italia deve prepararsi ad affrontare la questione, perché è già ora uno dei Paesi più vecchi al mondo, il terzo dell’Ocse dopo il Giappone e la Spagna, e lo diventerà ancor di più, complice l’aumento della speranza di vita».
Bisogna quindi attrezzarsi. Ci sono diverse iniziative attive sul territorio, a macchia di leopardo, proposte come micro-esperimenti locali: dal co-housing alle pratiche di invecchiamento attivo, per esempio. Da sole però non bastano: servono politiche adeguate che partano dall’alto. «Le agenzie governative appaiono in ritardo nel riconoscere il ruolo della solitudine tra i fattori determinanti per la salute o tra gli indicatori di rischio in un modo comparabile a quello di altre priorità di salute pubblica», sottolinea Marco Trabucchi, psicogeriatra e presidente di Aip. «Occorre tirar fuori la capacità di progettare: l’integrazione delle relazioni sociali deve entrare nelle priorità della salute pubblica – aggiunge –; di fronte alla sofferenza è necessario agire per costruire una società aperta, in cui ci sia una responsabilità reciproca».
Far emergere un fenomeno invisibile
«Identificare i luoghi della solitudine per combatterla e creare più consapevolezza su questo tema è nell’interesse futuro di tutti», sottolineano gli esperti. Invocano pure «un cambiamento culturale» per ridurre il fenomeno, che richiede una specifica attenzione per essere identificato e portato alla luce.
Far sì che i cittadini si sentano parte di solide reti e abbiano relazioni di qualità dev’essere un obiettivo perseguito anche dalle istituzioni. La solitudine provoca un incremento dei costi per i servizi sanitari e assistenziali delle comunità: questo aspetto, se non altro, dovrebbe stimolare all’intervento chi si occupa di programmazione sociale e sanitaria. Tanto più se si osservano i dati statistici e le proiezioni sulla popolazione italiana da qui alla metà del secolo. «La demografia si muove molto lenta ma continua, come le lancette dell’ora sull’orologio: dobbiamo essere in grado di affrontare i cambiamenti per tempo», caldeggia Gian Carlo Blangiardo, demografo dell’Università Milano-Bicocca e presidente designato dell’Istat.
Si allunga l’età della vita, quindi...
Oggi in Italia vivono 60milioni e 684mila persone; le famiglie sono 25 milioni. «La popolazione italiana sta diminuendo, perché nascono meno di mezzo milione di bambini ogni anno: il saldo nati-morti è negativo e non è compensato dall’effetto migratorio», evidenzia Blangiardo.
Pure la conformazione delle famiglie è mutata. «Sono sempre più smilze, perlopiù con un figlio o formate da soggetti soli – prosegue il demografo –. Le tendenze più recenti mostrano una crescita dei maschi fra i 45 e i 64 anni divorziati o separati: avere alle spalle un matrimonio andato male è un fenomeno diffuso». Ci sono poi certi segmenti di popolazione potenzialmente più esposti al rischio solitudine: i 4 milioni di vedovi, i 991mila celibi/nubili e i 368mila divorziati con più di 65 anni. «Negli ultimi 15 anni questa componente è cresciuta di 650mila unità», constata il professore.
Quali scenari si possono dunque ipotizzare? «Spingendoci in prospettiva al 2030, si può immaginare che le coppie con figli diminuiranno, mentre cresceranno le famiglie unipersonali – osserva Blanciardo –. Ci sarà poi un boom dei grandi vecchi: si contano 3,5 milioni di individui nella fascia 80-89 anni, nel 2065 saranno 6 milioni; raddoppieranno anche i 90-99enni, ora meno di un milione, mentre i centenari e più saliranno dagli attuali 17mila a oltre 120mila. È qualcosa di inevitabile: in una società che si muove in questa direzione bisognerà consentire una qualità della vita accettabile, dall’assistenza sanitaria adeguata alla possibilità di vivere un’esistenza di relazioni».
Prima che i nodi vengano al pettine
Tra i temi da affrontare c’è pure quello della cura. «È spesso in carico ai cosiddetti “giovani anziani” e alle donne, con oggettive difficoltà nella conciliazione di famiglia e occupazione – spiega Donatella Bramanti, sociologa dei processi culturali e comunicativi all’Università Cattolica di Milano –. Talvolta gli anziani sono soli perché i figli lavorano a lungo per poter raggiungere la pensione: questo aspetto è un elemento sfidante per la società attuale e futura».
Da ultimo, poi, c’è una questione spaziale con cui fare i conti. Se nei piccoli paesi la solitudine si riesce a contrastare con azioni di vicinato, una chiacchiera al supermercato o dal medico di famiglia, in città è più difficile da arginare. «Anche in centri storici come quello di Verona ci sono situazioni di solitudine assoluta: anziani che per pudore non chiedono aiuto, altri che vivono in isolamento perché il boom di appartamenti turistici ha sostituito quelli residenziali e non ci sono più relazioni di vicinato; si arriva perfino ai casi, purtroppo non remoti, di persone morte in totale abbandono e ritrovate solo dopo giorni», chiosa mons. Carlo Vinco, presidente della Fondazione Pia Opera Ciccarelli.
Adriana Vallisari
Anziani che aiutano altri anziani: l’affido contro l’isolamento
«La solitudine è sofferenza maledetta non quando si è soli ma quando si ha il sentimento di contar niente per nessuno», disse una volta il fondatore della Comunità monastica di Bose, Enzo Bianchi. Ed è proprio questa la condizione di sempre più anziani non solo nelle città, ma anche nei piccoli centri, dove tuttavia è ancora possibile mantenere una certa rete di contatti con i vicini o con persone che vivono poco distante. Ci si conosce ancora un po’ tutti nei paesi, anche se magari solo di vista. È nata da queste semplici ma concrete considerazioni l’idea dell’affido per anziani.
La Regione Veneto, in collaborazione con alcune cooperative sociali del territorio, ha stanziato dei fondi per far partire un progetto di questo tipo in ventiquattro enti locali che fanno parte dell’Ulss 9 Scaligera. In questa inedita tipologia di relazione sono stati inseriti infatti i Comuni di Bardolino, Brenzone, Caprino, Castelnuovo, Cavaion, Costermano, Fumane, Garda, Isola della Scala, Malcesine, Negrar, Nogarole Rocca, Pastrengo, Pescantina, Peschiera, Povegliano, Rivoli, San Pietro in Cariano, Sant’Ambrogio di Valpolicella, Sommacampagna, Sona, Vigasio, Ronco all’Adige e Gazzo Veronese. Tuttavia, solo quattro di questi l’hanno effettivamente esperita a partire da febbraio dello scorso anno: Bussolengo, Lazise, Valeggio sul Mincio e Mozzecane.
Il progetto si rivolge ad anziani o adulti autosufficienti a rischio o in condizione di disagio sociale, che vengono appunto affidati a una persona vicina di casa o che conoscono e di cui si fidano, il cui operato è garantito dalla rete creata dalla cooperativa sociale che coordina l’affido sul territorio di competenza. Le tipologie di affido sono tre: il piccolo affido, ovvero un aiuto per le comuni incombenze quotidiane, come può essere fare la spesa, per un impegno di un’ora e mezza circa la settimana da parte dell’affidatario; l’affido di supporto, ovvero un aiuto più consistente, per circa tre ore settimanali e rivolto a persone che vivono ancora autonomamente in casa propria, ma con maggiori difficoltà; infine vi è l’affido in convivenza. In quest’ultima tipologia, meno diffusa, l’affidatario si impegna ad accogliere in casa propria il beneficiario per un tempo di massimo un mese.
Naturalmente gli affidatari devono possedere buone capacità di relazione e di gestione delle incombenze della quotidianità, saper costruire un rapporto di affetto con chi assistono, ma anche di fiducia con gli eventuali familiari di quest’ultimo. «Devono essere persone predisposte ad aiutare l’altro – spiega Maddalena Galvani, responsabile dell’area risorse umane di “Spazio Aperto”, la cooperativa di Bussolengo che coordina gli affidi dei quattro Comuni attualmente afferenti –, disponibili in termini di tempo nei confronti del loro affidato, pure a distanza, tutto sotto la guida dell’assistente sociale del loro territorio e degli altri professionisti che fanno parte del progetto». Ad aggiungere valore, il fatto – del tutto fortuito – che per il momento tutte e sedici le persone affidatarie sono donne, la maggioranza delle quali ha più di sessantacinque anni ed è in pensione. Tutte dedicano almeno tre ore in più rispetto a quelle concordate con la persona che hanno preso sotto la loro ala.
Renata è una di queste e ha come affidata una donna di circa settantacinque anni, senza figli. «È stata una bella esperienza – racconta – anche se inizialmente ho avuto un po’ di difficoltà, perché la persona che assistevo piangeva molto, era praticamente depressa. Era uscita da poco dalla casa di cura, per sua stessa volontà. Per la verità non ho fatto nulla di più che starle vicino, ascoltarla, proporle di andare fuori, a fare la spesa, a prendere un aperitivo. Ho visto che ha funzionato, che ha ricominciato a prendersi cura di se stessa, a volersi truccare, mettere la borsa abbinata alla scarpa... è stata la mia più grande soddisfazione».
«Abbiamo cercato di riscoprire le relazioni che queste persone magari già avevano nel tessuto sociale del loro paese – afferma Silvana Monchera, assistente sociale dell’Ulss 9, responsabile del progetto affido anziani a Bussolengo –; persone che magari già bussavano alla porta per chiedere se avessero bisogno di qualcosa. Abbiamo solo chiesto loro se fossero disponibili a impegnarsi un po’ di più con la formula dell’affido, per aiutare queste persone tendenzialmente sole a stare meglio, ma in casa propria. Avere uno strumento snello di vicinanza agli anziani che coinvolgesse direttamente la loro comunità di riferimento è stata una bella scommessa. L’abbiamo portata avanti con entusiasmo. Gli anziani hanno aderito con semplicità e abbiamo trovato delle affidatarie con buonissime competenze».
Le persone in affido ad aprile 2018 erano già undici e ora sono ventitré, più sei in programmazione. Il progetto si inserisce fra le molte azioni previste dal piano triennale per l’invecchiamento attivo pianificato sulla base della legge regionale 23 del 2017. «I punti di forza di questo nuovo modo di pensare l’assistenza agli anziani sono sicuramente l’incentivazione della domiciliarità e la personalizzazione dell’affido in base al bisogno di colui o colei che ne beneficia – prosegue Galvani –. Non solo. Attraverso persone affidatarie che vengono scelte tra volti già almeno in parte conosciuti dagli affidati si creano rapporti di affetto e fiducia: la tranquillità è garantita dal coordinamento da parte del personale dell’Ulss e della cooperativa sociale scelta per proporre formazione e monitoraggio, lavorando in partnership con gli assistenti sociali territoriali».
Si riscopre così una verità che forse un tempo, soprattutto nei piccoli centri, era presente in modo naturale, ma che con lo sfilacciarsi dei rapporti umani è andata perdendosi, ovvero che grazie ai valori della prossimità e della cooperazione, dell’ascolto e dell’attenzione alle esigenze di un individuo al quale diamo un volto e del quale conosciamo la storia, un paese è ancora in grado di essere davvero comunità.
«Spero che questo progetto prosegua – è la speranza di Maria, una delle “nonne in affido” – perché altrimenti son sempre qua da sola. Almeno così ho la possibilità di fare quattro passi e due chiacchiere con la signora Luciana, che mi abita qui a fianco».
Ilaria Bazerla
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