Il Fatto di Bruno Fasani
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L’arte che emoziona, l’arte che provoca, l’arte da buttare nel wc

L’ultima volta che ho scritto su cosa intendevo per arte, mi arrivarono lettere risentite in cui mi si rinfacciava di non capirne nulla...

Parole chiave: Il Fatto (438), Bruno Fasani (347), Arte (33)
L’arte che emoziona, l’arte che provoca, l’arte da buttare nel wc

L’ultima volta che ho scritto su cosa intendevo per arte, mi arrivarono lettere risentite in cui mi si rinfacciava di non capirne nulla. Probabilmente era ed è ancora vero. Il che non mi impedisce di parlarne. Il fatto è che io, come molti altri, sono cresciuto con un’idea estetica di arte, ossia convinto che essa coincida con il bello. Dove il bello unisce due caratteristiche inseparabili tra di loro. Da una parte la capacità di risvegliare emozioni, spesso forti e incontrollabili. Si pensi alla famosa sindrome di Stendhal, che colpì il grande scrittore durante la sua visita ai musei italiani. Un disturbo psico-somatico che capita davanti ad opere di particolare bellezza. Io ne feci una piccola esperienza durante una visita alla National Gallery di Londra. Davanti a uno sconfinato e meraviglioso quadro di un paesaggio innevato, fui preso da un’emozione fortissima, cominciai a sudare, mentre sentivo il bisogno di buttare tutto quello che mi faceva sentire prigioniero, impedendomi di entrare nella scena, la giacca, lo zaino, il maglione… Fu un amico a intuire e a prendermi per un braccio per riportarmi alla realtà.
Questa sensazione del bello si accompagna poi all’idea della genialità dell’artista, che spesso vale una firma senza bisogno che egli si firmi. Come a dire che solo a qualcuno è dato di fare quelle opere. Davanti a un Botero o un quadro di Norberto, con i gioiosi fraticelli di Assisi, non occorre mettere didascalie per riconoscere l’autore e neppure tentare di imitare. Gli artisti veri, nelle loro opere, mettono la loro anima e questa si percepisce ad istinto prima che con gli occhi.
Oggi, quando si parla d’arte, spesso si pensa piuttosto alla sua filosofia, cioè alla capacità di tradurre nella realtà di un’opera l’idea intuita dall’artista dentro di sé. Sgarbi direbbe che tutto ciò che fa pensare, che è provocazione, è riconducibile all’arte. Quando alla Biennale di Venezia, anni fa, fu esposta una serie di barattoli con la scritta “Merda d’Artista” di Piero Manzoni, personalmente ne fui sorpreso e irritato. L’opera è stata consegnata al mito. L’autore, di suo, ci spiegò che con quella cosa egli intendeva dire che il vero artista è colui che, con la sua arte, sa trasformare anche le cose più brutte che esistono nella vita. Un po’ quello che fece Burri, pittore oggi economicamente inarrivabile ai comuni mortali che, nel Dopoguerra, mise nelle sue tele materiale di scarto, come juta, lamierino, cocci… per indicare che, dalle macerie, si andava a ricostruire qualcosa di nuovo.
Anche allora molti non capirono, come succede a me, ancora oggi, davanti a quello che qualcuno si ostina a chiamare arte. Poco tempo fa, nel museo Lam in Olanda, sono state buttate nel cestino due lattine vuote di birra. Chi le aveva immaginate come opera d’arte, pretendeva che esse ci ricordassero il tempo trascorso insieme. In attesa di dedicare un mausoleo ai goti di Venezia o a un fiasco di Prosecco, in questi giorni nel cuore di Napoli troneggia un’opera di Gaetano Pesce, definito il “massimo esperto del design radicale”. È una enorme colonna, alta dodici metri, sormontata da un basco, giusto perché qualcuno non sia portato e equivocare sulla sua rappresentazione fallica. Al Comune è costata 200mila euro, in gran parte finanziati dalla Regione Campania. Cosa ne pensi la gente del suo valore artistico è tutto racchiuso in una espressione che non ha bisogno di commenti: ‘na strunzata. E che il governatore De Luca si sia assentato all’inaugurazione, per non fare la foto con il sindaco, uno a destra e l’altro a sinistra alla base del monumento fallico, la dice più lunga di tante possibili parole.

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