Chi teme le favole “pericolose” e politicamente scorrette?
Chissà se i fratelli Grimm, mentre scrivevano la favola di Biancaneve, avranno mai pensato al turbamento che avrebbero procurato alle anime belle del 21° secolo...
Chissà se i fratelli Grimm, mentre scrivevano la favola di Biancaneve, avranno mai pensato al turbamento che avrebbero procurato alle anime belle del 21° secolo. A cominciare da noi, boomer ingenuotti, figli della tradizione e contaminati dal virus del patriarcato, così come vogliono far credere. Noi che alle favole abbiamo sempre creduto, innanzitutto per il loro potere di aiutarci a distinguere il bene dal male. Le favole che ci fanno capire il vizio, aiutandoci a scegliere la virtù; a schierarci dalla parte dei deboli quando l’arroganza dei forti cerca di sopraffarli; a intuire gli inganni della vita, quando è necessario usare coraggio e intelligenza.
Alla scuola di Pinocchio abbiamo imparato tutti a quali rischi si va incontro, quando si cercano le scappatoie, rinunciando alla saggezza. Quella degli adulti, o anche quella di Dio, per chi crede che egli esista e sia un Padre. E se il lupo oggi va di moda e lo si celebra con l’enfasi di un totem intoccabile, con Cappuccetto Rosso abbiamo imparato che nella vita ci sarà sempre qualcuno pronto a farci le scarpe se non saremo scaltri, evitando innate ingenuità.
Aiutarci a stare al mondo, raccontandolo con la leggerezza delle favole, è stato il genio creativo di tanti poeti e scrittori che, lungo i secoli, ci hanno lasciato le loro opere per insegnarci a vivere. Da Esopo, vissuto in Grecia sei secoli prima di Cristo, a Fedro, poeta latino a cavallo tra prima e dopo Cristo, arrivando a La Fontaine, nel Seicento, con i suoi animali celebrati in racconti finiti in tutte le antologie. Penso a La cicala e la formica, Il lupo e l’agnello, La volpe e l’uva… E senza scordare tanti altri autori, da Tolstoj a Collodi, da Andersen a Gianni Rodari, che ci hanno consegnato opere indimenticabili.
Ma oggi neppure l’innocenza di una favola riesce più a sottrarsi al politicamente corretto di letture dove tutto sembra ruotare intorno al sesso e ai discorsi di genere. A farne le spese, nei giorni scorsi, la figura di Biancaneve. La signora Paola Cortellesi, regista e protagonista di un film di grande successo, si è prodotta in un monologo, presso una università di Roma, dove ha trovato modo di definire la storia della protagonista della favola dei fratelli Grimm una vicenda sessista.
Prendo dal vocabolario la definizione di sessismo: “Orientamento ideologico o semplice tendenza culturale che porta a discriminare un sesso rispetto all’altro, in genere decretando la superiorità di quello maschile, e a valutare le capacità intrinseche delle persone sulla base dei loro ruoli sessuali”.
Ora sarà bene ricordare che, oltre a Biancaneve, sono tre i protagonisti simbolici al maschile, presenti nella favola. Il cacciatore, che non era né sessista, né femminicida (informare Cortellesi), il quale si rifiuta di uccidere la ragazza, secondo le disposizioni della matrigna, e la libera nel bosco. I sette nani, i quali non essendo né sessisti, né femminicidi e, tantomeno, tentati di violenza di gruppo (informare Cortellesi) accolgono quella creatura indifesa come una di famiglia. Infine, il principe, metafora della bellezza dell’amore vero, il solo capace di far trionfare il bene, il quale non è né sessista, né femminicida (informare Cortellesi). Tre ruoli al maschile, per indicare rispetto e tutela della donna.
Sosto nella delusione dei miei pensieri e nell’amarezza per quelli che circolano in questa società malata, e mi torna in mente un vecchio detto greco: “Quelli che vuole perdere, Giove prima li fa uscire di testa”.
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