Certa magistratura disonora la giustizia e lascia nella sfiducia
Nella vita, sia nel bene che nel male, ci vorrebbe un po’ di fortuna per avere il fisico giusto. San Tommaso d’Aquino ci ha lasciato pagine superlative sul digiuno, a fronte di un fisico che ci dicono abbiano dovuto bollirlo per scioglierne il grasso e fare in modo che potesse entrare nella bara...
Nella vita, sia nel bene che nel male, ci vorrebbe un po’ di fortuna per avere il fisico giusto. San Tommaso d’Aquino ci ha lasciato pagine superlative sul digiuno, a fronte di un fisico che ci dicono abbiano dovuto bollirlo per scioglierne il grasso e fare in modo che potesse entrare nella bara. Di Andreotti si disse che baciasse i mafiosi, ma Indro Montanelli sentenziò che di tutto poteva essere accusato il personaggio, tranne che di baciare, in quanto sprovvisto di labbra. Insomma, a dispetto delle parole, il nostro corpo racconta sempre qualcosa di noi. A volte in sintonia con ciò che abbiamo dentro, altre volte in evidente distonia.
Luca Palamara è stato in passato presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm), cioè l’organo rappresentativo di tutti i magistrati italiani. Poi era finito nel Consiglio superiore della magistratura (Csm), il massimo organo del potere giudiziario.
Nel 2019 la pubblicazione di alcune intercettazioni telefoniche lo misero con le spalle al muro con accuse pesantissime: corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio. Dietro c’era tutto il giro delle carriere dei rappresentanti delle varie correnti di magistrati. Raccomandazione di qua, raccomandazione di là, bustarella qui, bustarella lì, favore oggi, favore domani… Una greppia da spartire tra partiti e giustizia, i primi intenti ad assicurarsi un qualche santo patrono in caso di necessità, i secondi a incassare i vantaggi di carriere in prima fila, più foraggi vari da raccogliere lungo la strada. A seguito della denuncia, cinque consiglieri del Csm, tirati in ballo, si diedero ad una fuga precipitosa, dando corpo a quel detto secondo il quale i topi sono i primi a mettersi in salvo quando la nave rischia di trascinarli sul fondo.
Nei giorni scorsi Luca Palamara è stato espulso dall’Anm per palese indegnità, anche se l’impressione è che, con evidente ipocrisia farisaica, si siano guardate le pagliuzze nei suoi occhi (oddio, pagliuzze è un po’ un eufemismo), abbassando la saracinesca sulle travi di tanti altri magistrati. E infatti lui era arrivato con l’elenco dei correi da sbandierare al mondo, da buttare in faccia al tribunale, forse per intimorirlo, più che per servire la verità. Non glielo hanno consentito, ma lui l’ha fatto comunque passando le carte ai giornali. Muoia Sansone insieme ai Filistei, deve essere stata la filosofia che lo ha ispirato. Ma la cosa non lo nobilita. Al contrario. Ha piuttosto dimostrato che, in termini morali, oltre alla corruzione senza pentimento, l’uomo si presta anche al rancore e alla vendetta.
A giustificazione del suo gesto ha tirato in ballo l’immagine biblica del capro espiatorio, quando Israele confessava i peccati davanti ad un caprone che poi veniva buttato solitario nel deserto a morire di fame in espiazione delle colpe degli altri. Una diagnosi, la sua, non priva di qualche ragione, nel merito e nella forma, soprattutto nella forma, dato che la barba nera e incolta, il viso corrucciato e lo sguardo bieco gli conferivano un phisique du rôle che ben si attagliava al ruolo di vittima sacrificale che si era cucito addosso.
La triste vicenda di Luca Palamara è ovviamente una sconfitta umana e professionale soggettiva ed una, altrettanto drammatica, dei vertici del potere giudiziario, che rischia di travolgere nella disistima il sentire di tutti gli italiani. E questo a dispetto dei tanti magistrati operosi ed onesti, dei veri cirenei detto (con riconoscenza), che lavorano lontani dai riflettori e dai vantaggi di certe carriere – quelle che si nutrono di privilegi – mantenendo la schiena dritta.
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