Il Fatto di Bruno Fasani
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Bisogna pensare positivo sia pure con tanta paura

Ci sono sogni che si ripetono e risvegliano altri sogni. Era il 1985 quando il piccolo Verona si mostrò all’Italia come il gigante del calcio. Allora ero giovane e scanzonato. E fu un sogno senza risveglio che andava a gratificare quel po’ di sportivo che mi portavo dentro...

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Ci sono sogni che si ripetono e risvegliano altri sogni. Era il 1985 quando il piccolo Verona si mostrò all’Italia come il gigante del calcio. Allora ero giovane e scanzonato. E fu un sogno senza risveglio che andava a gratificare quel po’ di sportivo che mi portavo dentro, ma che lasciava anche tracce di buon esempio dentro l’uomo, come solo lo sport vero sa fare. A gestire quell’impresa non era solo un bravo allenatore ma un uomo vero: Osvaldo Bagnoli. Conosceva le tecniche del gioco, ma soprattutto guardava dentro agli uomini che aveva a disposizione e con lui non si poteva barare. Ed era il campo a dar ragione di quegli atleti che affascinavano per gioco e personalità: la correttezza e l’equilibrio di Piero Fanna, la generosità di Galderisi, l’eleganza di Tricella, la esuberante follia di Elkjaer, la possenza di Briegel… Tutti apprezzavamo le loro doti calcistiche, mentre ognuno di noi avrebbe voluto assomigliare a qualcuno di loro.
Col passare degli anni e con il crescere degli impegni, anche quel sogno finì tra le coppe dell’animo, che rischiano di finire sepolte sotto la polvere della memoria. C’era stata una piccola parentesi sportiva quando, agli inizi degli anni ’90 detti gli esami da giornalista professionista. Ma fu un interesse piuttosto ipocrita, senza candore. Mi dissero che in commissione c’era qualche mangiapreti per cui non valeva la pena addentrarsi in temi a rischio. Scelsi così di scrivere di Gianluigi Lentini, venduto al Milan per 5 milioni. Notizia bomba e un po’ scandalizzata per quei tempi, roba che a raffrontarla col presente finirebbe per sembrare operazione da pesca di beneficenza. Col calcio portai a casa il titolo, anche se iniziò pian piano a scemare la mia passione calcistica. Tanto più che il mio Toro aveva sempre meno smalto e il Milan col suo capo mi sembrava roba da Canale 5. Intanto sulla piazza avanzava una nuova stella, il Chievo Verona. Mi ritrovai poligamo, Verona e Chievo nel cuore, ma un po’ per posa a dire il vero, perché l’amore, quando è tale, è sempre e solo monogamo. Almeno fin che dura. E se non dura non è amore vero.
A risvegliare barlumi di passione, a dispetto dell’anagrafe che la vorrebbe sepolta sotto il peso degli anni, due città calcistiche di provincia. Bergamo e ancora la mia Verona. Dirvi che avrei voluto la Dea in cima al podio, è ovvietà condivisa. Impresa sfumata, ma un centinaio di gol al suo attivo meritano il gesto dell’ombrello alla Signora a strisce, sul trono per la nona volta consecutiva. Chapeau alla città orobica, che almeno nel calcio, ha sospeso la distinzione tra zona alta e bassa, per collocarsi solo in alto, nell’Olimpo dove stanno le grandi. Se Bergamo esulta, Verona si esalta. Grazie a un piccoletto silenzioso, Ivan Juric, un croato arrivato in riva all’Adige, conquistando da subito, risultati alla mano, il cuore della città. Riconducono la sua preparazione alla scuola di Gasperini, allenatore dell’Atalanta. Forse questo è vero sul piano tecnico. Ma sul piano propriamente umano, dimostra di possedere quella che in psicologia si chiama consistenza. È la forza della personalità, dotata di coerenza interna e stabilità, capace di guidare col cuore e con l’intelligenza, prima ancora che con le parole. È la caratteristica degli uomini carismatici, o più semplicemente degli uomini maiuscoli. Juric che proprio in questi giorni ha scelto di restare ancora a Verona, dimostrando lucidità davanti alle sirene degli euro, sta regalando entusiasmo e voglia di ripresa e, dati i tempi, anche questo merita un grazie. In fondo, i veri uomini, quando li incontri, in un modo o nell’altro, ti fanno sempre star bene.

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