“Quiricocho”, un grido di battaglia portasfortuna
Se avessi la macchina del tempo – la sto ultimando, ma ne ho interrotto la realizzazione per scrivere questo articolo – una delle persone che vorrei incontrare, non la prima e neppure la seconda (diciamo la centoventesima), sarebbe Quiricocho...
Se avessi la macchina del tempo – la sto ultimando, ma ne ho interrotto la realizzazione per scrivere questo articolo – una delle persone che vorrei incontrare, non la prima e neppure la seconda (diciamo la centoventesima), sarebbe Quiricocho. Dovrei impostare l’infernale trabiccolo affinché possa spedirmi in Argentina, negli anni ’60. E forse rimarrei deluso, perché Quiricocho è una figura un po’ leggendaria, nonostante non sia così lontana nel tempo. So però dove dovrei cercarlo: allo stadio dell’Estudiantes. Lo incontrerei assieme agli altri tifosi, tristi. Oppure non lo incontrerei affatto e vedrei tutta la curva esplodere di gioia. Già, perché se è vero quello che dicono, quando Quiricocho era allo stadio, la sua squadra perdeva. Per questo – dicono ancora, ma gli chiederei conferma – i suoi amici lo avevano costretto ad appostarsi ogni volta davanti all’ingresso dei giocatori avversari: avrebbe dovuto salutare loro, in modo da contagiarli con la sua dose di malasorte. Gli racconterei, forse, di quanto accaduto nel futuro (futuro dal suo punto di vista, non del mio). «Sei diventato famoso», esclamerei, raccontandogli di un telecronista messicano che nel 2014 ha urlato “Quiricocho” nella speranza che l’attaccante olandese sbagliasse un rigore ai mondiali. E lo stesso ha fatto cinque anni dopo Dybala, argentino, un attimo prima del penalty calciato dal cileno Vidal. In entrambi i casi, l’urlo non sortì l’effetto sperato, col pallone finito in rete. Ma “Quiricocho”, almeno in Sudamerica, è il grido di battaglia di chi vuole portare sfortuna all’avversario. Forse gli direi questo, anche perché non avrei molti altri pretesti per agganciare una conversazione con lui. Ma dovrei stare ben attento al suo sguardo. Quante persone vengono allontanate col pretesto, stupido, di portare la sfortuna solo con la propria presenza. Succede più spesso tra i giovani, ma le etichette uno ci impiega anni a strapparsele di dosso, e a volte non senza bruciature. No, alla fine credo che a Quiricocho parlerei d’altro. Tipo: «Lo sai che la maglia dell’Estudiantes mi ricorda vagamente quella del Vicenza?». Oppure: «Sai che da qualche parte, in questo Paese, c’è un bimbetto che diventerà un grandissimo calciatore? Si chiama Diego… No, non giocherà nell’Estudiantes, adesso chiedi troppo…». Gli risparmierei quella che potrebbe essere per lui l’ennesima umiliazione. Ci penso, mentre finisco di costruire la macchina del tempo. Dov’è finita la scatola dei bulloni?
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