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Liga Mayor

Solo quando il nostro settimanale sarà già in edicola, sapremo se il governo giallo-verde ha visto la luce, se si va verso un governo del presidente, oppure se dovremo prepararci a nuove elezioni.
L’ipotesi su cui scommettiamo è che comunque sia, il governo si farà...

Parole chiave: Governo (18), Di Maio (1), Salvini (3), Editoriale (407), Renzo Beghini (62), Politica (43)

Solo quando il nostro settimanale sarà già in edicola, sapremo se il governo giallo-verde ha visto la luce, se si va verso un governo del presidente, oppure se dovremo prepararci a nuove elezioni.
L’ipotesi su cui scommettiamo è che comunque sia, il governo si farà.
E già molti stanno prevedendo che sarà un fiasco. Gli oracoli e le profezie di queste ore avvisano che presto gli italiani capiranno di aver messo il Paese in mano a degli sprovveduti. Dilettanti allo sbaraglio. A breve l’Italia sarà in una situazione ingestibile con continui scontri tra le due anime del nuovo governo. Ci troveremo ancora una volta illusi e gabbati da quella che non è l’alba della terza repubblica, ma il mezzogiorno di fuoco di un deja-vu, solo più confuso, instabile e più fragile che mai. Queste le previsioni (o gli auspici?).
E se alla fine il governo Lega-M5s invece, funzionasse? La realtà è sempre più avanti di noi, diceva Giorgio Gaber, e devi riuscire a immaginarti da che parte va.
Di fatto il voto del 4 marzo ci ha descritto un Paese che non pensavamo possibile. Ed invece è il Paese reale. È finita l’offerta politica come competizione tra visioni complessive diverse, contrapposte ma coerenti. La moderna democrazia liberale del 900 sembra giunta a fine corsa. Dalle urne è uscita una raffigurazione de-ideologizzata della politica. Il populismo ha profondamente ridisegnato lo spazio pubblico. La nuova figura che rappresenta la vita comune non ha caratteri ideologici predefiniti: il tema aggregante può avere connotati di sinistra (lotta alla disuguaglianza come per il M5s) o di destra (reazione ai flussi migratori come per la Lega). Il nuovo che avanza sembra irrimediabilmente superare le categorie tradizionali. Così come le polarità tipiche del secolo breve: eguaglianza vs. differenza, libertà vs. autorità.
Le parole di Di Maio e Salvini rimandano non ad una direzione cui camminare insieme, non ad un traguardo cui guidare il Paese, ma vanno diritto a rispondere ad urgenze e bisogni immediati: pensioni, tasse, casa, sicurezza, immigrazione, reddito di cittadinanza. Il populismo identifica (ed esaurisce) politica con amministrazione e vuole rappresentare l’unità del popolo ‘qui e ora’. Non di domani o in via di costruzione.
Un’identità “pura” da ogni contaminazione propriamente politica. È l’idea che individua il ‘popolo’ (una sorta di ‘Geist’ direbbe Hegel) come una totalità organica, che gli attribuisce qualità etiche naturali quali l’onestà contro l’ipocrisia, la rettitudine contro la corruzione, la laboriosità contro la retorica. È l’Italia dei giusti, contrapposta all’Italia dei corrotti. Quella del popolo reale contro quella nominale dei privilegi. E per questo ne rivendica il primato come fonte di legittimazione e di potere, al di là e al di sopra di ogni rappresentazione e mediazione.
Populismo è la figura del rapporto diretto di chi esercita il potere con ‘la base’, il popolo cui sottoporre via web l’approvazione del programma di governo. Non a caso il ‘contratto’ è la categoria che meglio rappresenta questo legame: una categoria giuridica, che viene più usata in economia che in politica. È una cifra dura, rigorosa, esigente. È figura che descrive la negoziazione tra interessi diversi, che sancisce il momento in cui si neutralizza il conflitto, ma non riempie di senso la vita comune.
Certo, in questo momento abbiamo bisogno di un governo. Ci auguriamo che un governo politico, legittimo e autorevole possa ascoltare e rispondere ai bisogni dei nostri concittadini a cominciare da chi è più in difficoltà.
Ma gli interrogativi verso quale direzione e che cosa tiene insieme il Paese, rimangono. Li possiamo rimandare ma non cancellare. Perché governare non è una questione di menù e non è sufficiente soddisfare bisogni ed emergenze immediate. Altrimenti saremo costretti a ripetere con Søren Kierkegaard che ‘la nave è ormai in preda al cuoco di bordo e ciò che trasmette il microfono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani’.

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