Commento al Vangelo domenicale
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La fede che fa affrontare le tempeste visibili a partire dall’invisibile

Marco 4,35-41

In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».

La fede che fa affrontare  le tempeste visibili a partire dall’invisibile

Si conclude nella liturgia domenicale di questa settimana la lettura del capitolo quarto del Vangelo secondo Marco. Dopo aver descritto Gesù che trascorre l’intera giornata seduto su una barca a narrare parabole ai discepoli e alle folle, l’evangelista riporta la decisione del Maestro di passare dall’altra parte del mare. Nel secondo vangelo le traversate da una sponda all’altra costituiscono un espediente narrativo importante poiché coinvolgono sempre Gesù e i suoi discepoli e perché sono costantemente connotate da momenti di forte crisi. Esse, inoltre, sono strettamente connesse a due nuclei tematici: quello relativo all’apertura al mondo pagano, con la conseguente fatica dei Dodici a comprendere e adeguarsi alle esigenze che tale missione comporta, e quello inerente all’identità di Gesù che resta avvolta da domande frutto di stupore e di timore da parte dei discepoli.
L’episodio della traversata in barca è presente in tutti e tre i vangeli sinottici con differenze non marginali. Le versioni di Matteo e di Luca, ad esempio, riferiscono di Gesù che sale sulla barca (Mt 8,23; Lc 8,22) mentre Marco imputa l’azione dell’inizio della navigazione ad una parola del Maestro che afferma: «Passiamo all’altra riva» (Mc 4,35), senza esplicitare la salita sull’imbarcazione poiché dalla narrazione risulta che Egli è già lì sopra.
Il mare, nell’orizzonte biblico, è simbolo di una potenza avversa e caotica che può essere governata da Dio, l’unico che ne fissa i confini, imbriglia l’ardore e la forza e ne domina l’impeto. Nell’immaginario ebraico, infatti, il mare è l’elemento naturale soggiogato dal Signore per permettere al popolo di Israele di fuggire dalla schiavitù dell’Egitto, ma è anche il luogo in cui dimora il Leviatan, mostro marino terrore dei naviganti. Nel brano di questa domenica le acque da attraversare non sono quelle del mare, ma del lago di Tiberiade, la grande barriera naturale che, separando la riva orientale da quella occidentale, di fatto divide due realtà culturali e sociali differenti: quella a maggioranza pagana e quella a prevalenza ebraica. Si tratta di due ambienti distinti ma non per forza destinati a restare lontani e sconosciuti l’uno all’altro: attraversare il lago è possibile, sebbene possa rivelarsi difficile e insidioso, ancora di più se lo spostamento tra le sponde avviene al calar della notte.
Quando, mentre le tenebre incombono, si scatena la tempesta e governare la barca sembra impossibile, la vista di Gesù che dorme a poppa, con la testa posata su un cuscino, genera nei discepoli incredulità e un po’ di stizza tant’è che si rivolgono a Lui in maniera brusca. Diversamente da quanto attestato nei racconti di Matteo e di Luca, in cui i Dodici con parole rispettose chiedono salvezza, Marco riferisce che i discepoli, in preda all’angoscia, si rivolgono al Maestro insinuando una mancanza di attenzione verso di loro. L’atteggiamento inerte e il sonno profondo del Nazareno appaiono loro incomprensibili al punto che si sentono destabilizzati da tale comportamento. Ma Gesù, dopo essersi destato, aver sgridato il vento e sedato il mare riportando uno stato di bonaccia, si rivolge ai compagni chiedendo: «Perché siete paurosi? Non avete ancora fede?» (Mc 4,41). Le sue parole portano in superficie la grande fatica che fanno i discepoli a porre realmente la fiducia in Lui, poiché la loro fede si rivela incerta e piccina. Eppure, solo pochi versetti prima, Egli parlando in parabole aveva proprio detto che il seme gettato nel terreno dall’uomo germoglia, sia che questi dorma o vegli, sia di giorno che di notte.
Il miracolo operato da Gesù ha una forte valenza simbolica: ciascuno, infatti, nella sua vita ha vissuto o sta vivendo ore di tempesta, in cui si sente solo e in balia di eventi avversi. Per di più se tali tempi difficili hanno una durata prolungata è facile avere l’impressione di trovarsi di fronte al sonno di Dio, alla sua inattività, al suo silenzio, alla sua sordità nei confronti delle suppliche e delle invocazioni di aiuto; si può persino arrivare a dubitare della sua presenza. Anche quanti pensano di avere una fede matura e adulta possono giungere a vacillare nella fede mentre paura, incertezza e angoscia prendono il sopravvento.
La forza e l’urgenza della realtà presente possono minare la stabilità della fiducia in Dio. La fede cui invita Gesù è quella che permette di affrontare le tempeste visibili a partire dall’invisibile, ossia dalla consapevolezza che il Signore è sempre accanto a ciascuno, sa di cosa ha bisogno ed è più forte di ogni paura.

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