I medici di famiglia in calo anche a Verona
Dottore di famiglia, addio? Entro i prossimi sette anni, 20 milioni di italiani potrebbero ritrovarsi senza medico curante di fiducia.
Dottore di famiglia, addio? Entro i prossimi sette anni, 20 milioni gli italiani potrebbero ritrovarsi senza medico curante di fiducia. E rimpiazzare i posti vacanti di chi appenderà camice bianco e fonendoscopio al chiodo potrebbe essere difficile. A questa (poco salubre) prospettiva, fotografata dall’Ente previdenziale Enpam ed evidenziata dalla Federazione italiana dei medici di famiglia Fimmg, concorrono varie cause.
Sul piatto del bilancino pesa innanzitutto l’esodo verso la pensione di parecchi professionisti della salute, concentrati in particolare al Nord: le regioni in cui andranno in quiescenza più medici di base sono Lombardia (2.776), Veneto (1.600) e Piemonte (1.173). Altri conti vengono da sé, poiché ciascun dottore ha in media un bacino di 1.200 assistiti a carico. In Italia dove peraltro, rivela l’Ufficio statistiche dell’Unione europea Eurostat, si contano 88,9 dottori di famiglia ogni 100mila abitanti ed è il fanalino di coda rispetto ad Irlanda (con 234,8 medici a parità di abitanti), Germania (167,4), Francia (155,5). Senza contare che si tratta di persone che, per il 49 per cento, hanno superato i 55 anni. E per maturare i requisiti per la pensione ne devono aver collezionati 35 di contribuzione o devono aver al massimo 70 anni d’età. Poi, nella realtà, vanno a riposo mediamente tre anni prima.
E le nuove leve? Sono poche per far fronte al ricambio generazionale che si prospetta e viaggia al ritmo battente di oltre 3mila dottori in pensione ogni dodici mesi. Una lotta impari nei numeri, se si considera che le borse di studio erogate dalle Regioni per la scuola di specializzazione non superano i 900 borsisti annui, per guadagnare circa 800 euro al mese (quasi la metà rispetto a chi opta per altre specialistiche, con retribuzione mensile di 1.700 euro).
Particolare che ha contribuito a far perdere appeal al mestiere? Forse. Accompagnato dal fatto che i giovani devono aprire l’ambulatorio, con un investimento iniziale non da poco, se non trovano il lavoro avviato. Sintomi che qualche meccanismo deve cambiare affinché gli ingranaggi del sistema continuino a girare. La medicina di base comunque non è la stessa di tre decenni fa, ma parte di una trasformazione ormai necessaria, con i chiari di luna che interessano la sanità. Se non si vuole che alla fine, nelle sale d’attesa, rimangano unicamente le persone da curare...
Il peso della burocrazia
«Ad essere diversi rispetto al passato sono prima di tutto i pazienti, più informati. Nei casi estremi, dal riferire i sintomi, arrivano con la diagnosi fatta consultando internet», fa notare il dottor Paolo Brugnoli, fiduciario uscente della Fimmg con studio a San Massimo dal 1980. Dall’altro lato della scrivania, ha inizio in quel momento l’iter del medico che deve individuare il problema. Libro bianco delle regole prescrittive alla mano poiché, prima di decidere un farmaco o un esame, dovrà capire se è a carico del malato o del Servizio sanitario nazionale.
Scende nel dettaglio, per esemplificare: «Vi sono medicine per l’ulcera che il Servizio sanitario passa in determinate situazioni di ordine clinico». Qui subentra la burocrazia, comunicata attraverso circolari quasi giornaliere: un incrociare parametri d’età, patologia e reddito per comprendere se quella pastiglia, il malato, se la deve pagare o no. Si finisce sempre lì, a fare i conti in tasca.
Certo è, ammette, che «il sistema può rimanere in piedi se si spende il giusto. Il controllo è necessario perché l’equilibrio tra costi e risorse venga mantenuto». Un gioco, dice, a tre parti: «Tra il cittadino che ha i suoi diritti. Ulss e Regione che erogano i servizi. Infine i medici». Professionisti in camice che devono gestire il cambiamento: dalla sostituzione della ricetta rossa con quella bianca, che ha passaggi tecnici ancora da rodare nel rapporto con i centri di prenotazione; fino al fascicolo sanitario elettronico, prosegue, «contenente le informazioni sanitarie del paziente che medico di famiglia e ospedaliero oltre allo specialista potranno condividere». Non ancora attivo perché incagliato sul tema della privacy, trattandosi di dati sensibili. Un’evoluzione rispetto alla scheda che, ogni dottore, compila per il proprio assistito e facendo riferimento alla quale invia all’Ulss il riepilogo delle attività dell’ambulatorio di competenza.
Ricambio generazionale
«Purtroppo l’istituzione pubblica tende a considerare il medico convenzionato come spesa, non come risorsa sul territorio», sottolinea il dott. Carlo Peruzzini, segretario organizzativo generale della Fimmg scaligera e consigliere dell’Ordine dei medici. Pensiero che si riallaccia alla tematica attuale del ricambio generazionale per far fronte all’ondata di pensionamenti all’orizzonte del settore: «Le scuole di medicina generale non sfornano sufficienti professionisti – premette –: o si importano medici da altre Regioni e dall’estero, oppure si cambia gestione, con un modello in cui l’infermiere funga da interfaccia e si favorisca l’integrazione tra professionisti». Altro nodo da sciogliere è quello degli accessi programmati alla formazione che, per normativa europea, sono su base triennale e vengono stabiliti dalla Regione con apposito bando. Gli iscritti ai poli veneti, di Verona e Padova, non sono attualmente sufficienti a dar risposta al fabbisogno.
Non è un lavoro, a sentire il referente della Federazione, che ha perso di interesse da parte delle giovani generazioni di camici bianchi. Anzi, dovrebbe essere promossa maggiormente tra gli studenti di medicina, mettendoli a contatto con la quotidianità degli ambulatori che arrivano a conoscere solamente quando, prima dell’esame di Stato, devono trascorrere lì un mese di tirocinio formativo obbligatorio. Contatto con la realtà che peraltro, sempre secondo Peruzzini, manca nel percorso formativo: «Chi esce dalla scuola di specializzazione è tecnicamente bravo sotto il profilo medico e sufficientemente pronto dal punto di vista relazionale. Non conosce nulla, tuttavia, degli aspetti organizzativi e non ha una visione progettuale per occuparsi di un servizio di base, attento alle esigenze della popolazione».
Gap generazionale che rischia di avere un peso eccessivo, anche in considerazione di come evolve il mestiere: «Un medico deve sapere, saper essere dunque relazionarsi con il malato e – conclude – saper fare, con competenze tecniche che non si apprendono all’università».
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