«Don Ferdinando, uomo di Dio fino al suo ultimo giorno»
Il ricordo di don Rancan ad un anno dalla sua scomparsa. A breve una biografia della sua vita curata da don Ermanno Tubini
Un anno fa, il 10 gennaio 2017, è scomparso don Ferdinando Rancan: aveva novant’anni. Ha esercitato un’attività sacerdotale vasta e feconda in diverse parrocchie della città; è stato parroco della Pieve dei Santi Apostoli dal 1980 al 1997 e successivamente collaboratore presso Sant’Eufemia. Ha insegnato Scienze naturali presso il Seminario per lunghi anni dal 1955 al 1980. Ha insegnato anche religione nei licei Messedaglia e Agli Angeli. Ha pubblicato una decina di libri di spiritualità e ha composto poesie che hanno ricevuto riconoscimenti. Negli ultimi anni le condizioni di salute lo avevano costretto ad operare nel suo appartamento di lungadige Matteotti, dove ha continuato a ricevere persone, ad amministrare il sacramento della riconciliazione, a celebrare la Messa e a predicare.
Chiediamo a don Ermanno Tubini, che gli è stato vicino negli ultimi anni e che fra alcuni mesi pubblicherà una biografia di don Rancan, di aiutarci a ricordarlo.
– Era un sacerdote molto apprezzato. Pensa che ci fosse qualcosa in particolare che dava ragione della sua efficacia?
«Se lo potessimo chiedere a don Ferdinando, direbbe che l’efficacia gli veniva dall’aiuto di Dio, dalla grazia. Indubbiamente c’era la sua passione per Dio e le cose di Dio; e c’era l’interesse autentico per le persone: questo colpiva e attirava. Costruiva relazioni: con Dio e con le persone che lo frequentavano. Aveva un rapporto forte con il Signore: pregava molto, aveva una devozione speciale per la prima Persona della Trinità, per Dio Padre; amava la Madonna e su di lei si appoggiava nei momenti più difficili; amava la Messa… Questo è normale in un sacerdote; ma in lui aveva un sapore speciale di autenticità. Il personale rapporto con Dio rendeva facile ed efficace il rapporto con la sua gente. Era affabile, allegro, positivo, disponibile, generoso. La sua predicazione aiutava, “toccava il cuore”, dicevano. Nell’amministrazione del sacramento della riconciliazione le persone si sentivano capite, incoraggiate, amate e perdonate».
– Era molto umano, sensibile. Mi consenta la domanda curiosa: era capace di ridere e di piangere? Davanti agli altri?
«Era molto spontaneo: non gli costava che trasparissero le sue emozioni. L’ho visto sorridere e ridere molte volte. Ricordo un piccolo episodio che parla anche della sua umiltà. C’era un alunno a Roma che frequentava un’università pontificia; un giorno mi mandò questo messaggio: “Oggi nella lezione di Teologia pastorale sono stati citati i libri di don Ferdinando Rancan come esempio di contemplazione del Vangelo. Abbiamo tutti pregato per lui”. Quando gliel’ho riferito, si è messo a ridere: “Ma guarda cosa capita a questo mondo!”. Di orgoglio, niente. Si capiva che gli interessavano più gli altri che i riconoscimenti. Il pianto c’è stato. Ha sofferto molto quando inaspettatamente gli è stata negata l’ordinazione sacerdotale: alla fin fine, a causa di un malinteso. Gli crollò il mondo. Quando, dopo tre anni, lo stesso Vescovo lo consacrò sacerdote, penso che sarà stato felice e che avrà riso. C’è stato un momento, pochi giorni prima della morte, in cui l’ho visto profondamente triste. Mi disse che gli sembrava di vedere Gesù triste. Disse: “Vedo questo Gesù un po’ triste; non arrabbiato ma triste. Come ci stiamo comportando? Non accuso nessuno, ma rifletto su di me… Che io non veda un Gesù triste, scontento… Fammelo vedere, trovare, il Gesù che ho sempre avuto nella mia vita…». Poi si interruppe e mi sorrise; si voleva scusare per questa sua confidenza».
– Ha scritto molto: una decina di libri; ha composto poesie, con riconoscimenti. È probabile che il professore romano si sia riferito ad una storia di Gesù intitolata In quella casa c’ero anch’io, in cui don Ferdinando si immagina bambino nella casa di Nazaret, e al seguito delle vicende della Santa Famiglia. Don Ferdinando si considerava uno scrittore?
«Gli piaceva scrivere e aveva talento, ma si considerava soprattutto un pastore. È significativo quello che ho sentito dire da una parrocchiana dei Santi Apostoli: “Scriveva per noi”. C’è indubbiamente del vero. I libri nascevano dalla sensibilità pastorale di don Ferdinando, erano costruiti su misura per la sua gente. Venivano pubblicati alla buona, pro manuscripto. Quando si accorgeva che potevano servire per una cerchia più grande, ricorreva ad una casa editrice. E i libri si diffondevano, fino ad entrare… nelle università».
– Don Ferdinando apparteneva alla Società sacerdotale della Santa Croce, un’associazione sacerdotale intimamente unita all’Opus Dei. Questa appartenenza che influsso ha avuto sulla sua vita e sulla sua attività pastorale?
«Lo spirito dell’Opus Dei lo ha portato innanzitutto a sentirsi molto unito al suo Vescovo e alla sua gente. Lo ha aiutato a percorrere un cammino di santità personale e ad aiutare i suoi fedeli a cercare la santità nella loro vita quotidiana, nella famiglia, nel lavoro. Aveva appreso dall’Opus Dei quello che poi trovò confermato nei testi del Concilio Vaticano II: che tutti i battezzati sono chiamati da Dio ad essere santi. Indicava alla sua gente i modi pratici per percorrere il loro cammino: la vita di preghiera quotidiana, la pratica dei sacramenti, l’apertura agli altri, la preoccupazione per la salvezza delle anime, l’apostolato… Educava all’amore alla Chiesa e al Papa. Amava molto papa Francesco e ne apprezzava la sua azione pastorale. Si sentiva sacerdote di tutti; non voleva che nella sua parrocchia si formassero “chiesuole”. Don Ferdinando aveva conosciuto personalmente san Josemaria Escrivà, e tra i due era nato un rapporto di grande affetto»
– Le chiedo ora quali sono le ultime immagini di don Ferdinando che ha conservato negli occhi e nel cuore.
«L’ultima immagine è quella della sera del 9 gennaio 2017, al Pronto Soccorso di Borgo Trento, quando i medici avevano detto che il decesso era vicino e io lo vedevo sulla soglia del cielo. Gli ho conferito l’Unzione degli infermi; gli ho parlato del paradiso che era vicino. Ho pensato che non l’avrei visto più. Ero molto triste. Poi ho pensato al cielo. Ricordo anche le penultime immagini. Era la sera del 4 gennaio. Eravamo insieme da un po’ nel suo appartamento. Incominciò a farmi una confidenza. Mi disse che sentiva il peso della cecità: “In casa riesco a orientarmi; la conosco a memoria; però faccio fatica a distinguere il giorno dalla notte. Ma il mio orientamento è qui – e ha segnato il cuore – dove ho Dio, e là – e ha segnato il luogo in cui aveva l’ostensorio con l’ostia consacrata e dove aveva una immagine della Madonna –. Così non mi confondo”».