Una volta qui era tutta foresta Amazzonica...
di ADRIANA VALLISARI
Tre ciclisti l’hanno attraversata: cosa resta? Poco
di ADRIANA VALLISARI
«La deforestazione lungo la foresta Amazzonica? È una catastrofe ambientale dalle proporzioni inimmaginabili: il disastro ecologico è in uno stato molto più avanzato di quello che crediamo qui in Europa». Possono dirlo perché l’hanno constatato coi propri occhi, pedalando un chilometro dopo l’altro lungo la Transamazzonica, la strada (incompiuta) che congiunge gli oceani Atlantico e Pacifico attraverso Brasile, Bolivia e Cile, tre ciclisti temerari che hanno poi allungato il viaggio in Argentina, godendosi una pedalata sulle Ande: il medico veronese Alberto Vaona, il novarese Paolo Simone, pilota aeronautico, e il vicentino Riccardo Bonazzo, ex atleta del Corpo forestale ed entomologo.
Tre ciclisti che hanno fatto gruppo per 5.500 chilometri, mettendosi alla prova in un’impresa sportiva estrema, finalizzata a tenere alta l’attenzione sulla distruzione del polmone verde del mondo e sulla violazione dei diritti umani di chi lo abita. Qualche giorno fa hanno tenuto una diretta su Skype per raccontare il viaggio intrapreso quest’estate, battezzato “Io sono Amazzonia” e seguito da centinaia di persone sui social, di cui aveva scritto anche Verona fedele. Tirandosi dietro 50 chilogrammi di peso, tra bici e attrezzatura, e sfruttando la stagione secca, a luglio i tre si sono avventurati sul percorso battuto per la prima volta nel 1978 dall’infermiera neozelandese Louise Sutherland e una seconda volta, più di recente, da un ciclista tedesco.
«La prima parte della Transamazzonica, fino alla città di Altamira, capitale dello Stato del Parà, è stata un continuo attraversamento di fiumi – hanno raccontato –. Il tratto intermedio, fino a Itaituba, è stato tutto collinare e ancora civilizzato, pieno di camion che trasportano carne (perché la deforestazione avanza per fare spazio all’allevamento), che sollevavano la polvere e ci costringevano a pedalare con la mascherina FFP2 addosso; il terzo tratto, da Itaituba a Humaità, era invece quello dei famosi “1.100 impossibili”, così li chiamò Sutherland, tutti sterrati: ci aspettavamo di essere sempre immersi nella foresta vergine impenetrabile, invece l’abbiamo attraversata solo per 250 chilometri».
La deforestazione, documentata dai satelliti e dai rapporti pubblicati periodicamente, loro l’hanno toccata con mano. «Abbiamo pedalato a lungo sullo sterrato, con un’umidità altissima e temperature sempre sopra i 40 gradi, fiancheggiando paesaggi già deforestati da tempo e oggi purtroppo desertici, imbattendoci spesso in incendi – hanno spiegato –. La biodiversità che ci aspettavamo? La trovavamo solo nelle carcasse di animali investiti e uccisi lungo la strada».
Solo dopo infinite colline di mais, piantagioni di cacao e tanti pascoli, con residui di foresta in lontananza, i ciclisti hanno assaggiato un po’ di autentica Amazzonia, nel tratto più selvaggio. «Là sì che ci hanno impressionato i canti notturni degli uccelli, magnifici e mai uditi: aspettavamo quello spettacolo da 1.250 km e proprio quando ormai disperavamo, ci ha sorpresi», hanno detto. E nonostante dovessero fermarsi ogni 10 minuti per strizzare maglia, pantaloncini e calzini per il sudore, sono stati ripagati dalla vista di nugoli di farfalle, pappagalli e scimmie. «Lavorando con la Forestale avevo già visto l’orso e il lupo, ma quando una mattina presto mi ha attraversato la strada una pantera nera, ho visto scorrermi la vita davanti», ha ammesso con un sorriso Bonazzo.
Insidiosi sono stati pure i piccoli moscerini che puntavano alle gambe durante le riparazioni; per il resto, a parte il caldo estremo, la pantera e la difficoltà a reperire denaro in contanti quando le carte di credito non funzionavano, per i tre non ci sono stati altri pericoli, né di criminalità, né di salute. «In alcuni tratti vedevamo tanta gente girare col fucile a tracolla sui motorini: “Voi che armi avete?”, ci chiedevano. “Noi? Solo un coltello per pelare le patate”, rispondevamo; forse ci hanno presi per dei matti», ridono al ricordo. Oltre a documentare la deforestazione, il trio ne ha visto gli effetti immediati sui diritti umani degli indios, minacciati dal business dei fazenderos, che qui hanno trovato la loro miniera d’oro. «Abbiamo parlato con un leader del popolo Karipuna, mentre a Porto Velho siamo stati ricevuti dal vescovo Roque Palosqui, che aveva incontrato il Papa nel sinodo per l’Amazzonia: abbiamo dialogato con lui sulle attività di difesa degli indios fino alla Dottrina sociale della Chiesa», ricostruisce Vaona. È stato insomma un viaggio indimenticabile, che ci consegna un messaggio urgente: se vogliamo salvare quel che resta dell’Amazzonia, bisogna agire in fretta.
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