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«Sopravvivere per vivere: cosa abbiamo imparato dall’emergenza Covid»

di REDAZIONE

A Veronafiere un convegno organizzato da Fondazione Fevoss Santa Toscana fa il punto

Parole chiave: Covid-19 (90), da Fondazione Fevoss Santa Toscana (1), Salute (63), Sociale (19), Pandemia (35)
«Sopravvivere per vivere: cosa abbiamo imparato dall’emergenza Covid»

di REDAZIONE

«Sono stati tempi bui quelli: di paura, di solitudine, di angoscia. Tempi vissuti però con la speranza di una comunità ritrovata. La disperazione di quei giorni non possiamo dimenticarla. Cosi come non possiamo dimenticare i tanti caduti nell’esercizio del loro dovere: medici, infermieri e volontari». Il ricordo di tutte le persone morte di Covid ma anche la celebrazione di un ritrovato senso di solidarietà e la capacità di resilienza del sistema sanitario – come recitano le parole del presidente della Fondazione Fevoss Santa Toscana Alfredo Dal Corso – sono state al centro del convegno "Sopravvivere per vivere: cosa abbiamo imparato dall’emergenza Covid – Prospettive future". Una giornata di confronto organizzata sabato 24 settembre a VeronaFiere dalla Fondazione e dalla dottoressa Franca Mirandola, medico di medicina generale, presidente onorario di Fismu, la Federazione Italiana Sindacale dei Medici Uniti e responsabile scientifica del convegno che, malata di Covid, ha vissuto un’esperienza dolorosissima, vissuta dal duplice punto di vista di paziente e insieme di medico. 

«La pandemia che come medici di famiglia ci ha visti in prima linea (su 374 operatori sanitari morti di Covid, oltre la metà sono medici di base, ndr) ha peggiorato un problema cronico ma sottovalutato: il 65% dei medici di medicina generale è vittima di molestie, minacce, aggressioni verbali ma non solo. C’è in atto infatti una fuga dei professionisti dal sistema sanitario nazionale verso il privato e lo svilimento della professione ha fatto emergere il fenomeno della pensione anticipata. Occorre prendersi cura della salute del cittadino, ma anche di chi se ne prende cura».

 

Il sistema sanitario nazionale, infatti, rimasto “ferito” durante la pandemia, ha dimostrato una grande capacità di resilienza. Come quando, ha raccontato Beatrice Milan, dirigente medico di Anestesia e Rianimazione dell’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona, «nel giro di pochi giorni all’inizio della prima ondata, i letti di Terapia intensiva a Verona sono passati da 60 a 120». O come quando, le ha fatto eco Gaspare Crimi, direttore di Medicina Fisica e Riabilitazione Ulss9, «l’ospedale di Marzana ha deciso di trasformare la struttura di Riabilitazione intensiva dedicandola solo ai pazienti Covid e in cinque giorni è riuscita a fare il “miracolo”: 105 pazienti su 215, nell’epoca più cupa, ne sono usciti. La riprova che è stato utile, anche per permettere ai reparti per acuzie di avere letti disponibili per i nuovi pazienti».
O, ancora, quando il 23 marzo 2020 la maxi emergenza si è palesata in tutta la sua grandezza anche alla Centrale operativa del Suem 118: «Invece della media di circa 400 chiamate, in un giorno ne abbiamo ricevute più di 900», racconta Adriano Valerio, direttore della Centrale operativa. «Così ci siamo ritrovati a gestire il nuovo ordinario causato non da una catastrofe naturale, ma da un nemico ancora più subdolo». Senza contare il commovente racconto di Mirella Mazzi e Laura Savoia, due infermiere della Terapia intensiva dell’ospedale di Villafranca, individuato dal Piano di emergenza della Regione come Covid Hospital, che nel giro di un paio di giorni ha visto lievitare i posti letto di Terapia intensiva da 8 a 38, con enormi complessità assistenziali.

Una flessibilità e una capacità di reazione sorprendente, i protagonisti della quale, da allora, sono diventati i nostri “eroi”. Ma che non basta per sedersi sugli allori e per proiettarsi nel futuro. «Il Pnrr è una grande opportunità, ma anche un grande rischio: un’occasione per rilanciare investimenti, ma il loro buon esito dipende dall’aver prima elaborato un futuro. Manca invece, ad oggi», afferma Mirandola, «una visione di sistema. Paghiamo cara la scelta di non aver investito sul capitale umano. Serve una riforma radicale, che consenta al medico di operare con un apparato burocratico ridotto al minimo: come medici di famiglia vogliamo rimanere un punto di riferimento territoriale per le persone e per questo serve anche un’alleanza tra professionisti e mondo del volontariato».

Sulle prospettive legate al Piano nazionale di ripresa e resilienza è intervenuta anche Mariapia Garavaglia, ex ministro della Salute. «Servirebbe aumentare i finanziamenti del Pnrr», ha detto, sottolineando altre criticità del sistema sanitario nazionale, sottoposto allo “stress test” del Covid. «Ci vuole meno burocrazia, un rapporto accorciato con i cittadini. E occorre avere fiducia nella scienza: il Pnrr avrebbe dovuto dedicare più risorse anche alla ricerca. Ancora, esiste un problema di programmazione: l’università chiuda il numero chiuso per le professioni sanitarie. E vengano potenziate le strutture: la più grande lezione che ci ha dato il Covid è che la medicina territoriale si è dimostrata assolutamente necessaria nel fronteggiare la pandemia, ma non si è sviluppata adeguatamente».

Serve dunque un restyling importante, per dare risposte alle nuove domande e ai nuovi bisogni di salute della collettività, ha sottolineato anche Salvo Calì, presidente del Centro Studi Naz. Fismu, «come le case di comunità e la medicina di prossimità, previsti finora sulla carta: ora servono risorse».

 

Tanto più che il Coronavirus colpisce non solo la salute fisica di chi lo contrae, ma porta anche con sé ricadute psicologiche ed emotive che devono essere riconosciute e prese in carico in un’ottica di prevenzione e di qualità della vita. A testimoniarlo Cinzia Perlini e Maddalena Marcanti, che hanno studiato l’impatto psicologico dell’infezione da SARS-Cov2 in una coorte di pazienti seguiti all’Ospedale Maggiore di Verona: «Il 28 per cento delle mille persone valutate ha percepito un cambiamento pre-post Covid rispetto a ritmo sonno-veglia, stato emotivo, relazioni sociali. E il 95% del campione ha manifestato la propensione ad intraprendere un percorso psicologico a seguito della malattia».

 

Notevole l’impatto del Covid anche sul mondo del volontariato, uno dei settori più colpiti a causa della crisi di spazi e di incontri dovuta alle limitazioni imposte. «Ma il sistema del volontariato ha espresso una elevata resilienza», sostiene Stefano Tardivo, direttore della Scuola di Specializzazione di Igiene e Medicina preventiva dell’Università di Verona. «I volontari hanno assicurato i servizi di prima necessità». Lo conferma  un’indagine del Centro servizi per il volontariato: oltre due associazioni veronesi su tre sono rimaste operative anche durante il lockdown, ha assicurato Cinzia Brentari, coordinatrice del Csv Verona. «Anzi, nel 2021 è aumentata di 15 punti percentuali la quota di enti non profit che hanno continuato ad operare, passando dal 60% al 75%. E quasi la metà delle organizzazioni di volontariato ha avviato nuove collaborazioni di rete».

Il lavoro di squadra e la solidarietà, insomma, sono stati fondamentali per far fronte all’emergenza. Ma  cosa dobbiamo aspettarci per l’autunno appena iniziato? «Abbiamo presupposti che ci consentono di guardare in modo positivo al futuro», rassicura Claudio Micheletto, direttore di Pneumologia dell’Azienda ospedaliera di Verona. «Gran parte della popolazione è vaccinata, fatto che evita la progressione della malattia. E a Verona molte persone sono venute a contatto col virus e questo consente di sviluppare immunità. Infine, il virus, ondata su ondata, sembrerebbe generare in percentuale meno forme polmonari. E questo ci consente di sperare che diventi una delle tante ondate virali, come l’epidemia influenzale. Contro il Covid siamo pronti, i piani sono rodati da tempo», conclude Micheletto,  «ma speriamo di non doverli usare. Non eprché ne abbiamo paura, ma perché non vogliamo lasciare indietro altri pazienti».

Fonte: Comunicato stampa
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