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Sapienza e nuove visioni per far svoltare la politica

Conclusa la 50ª settimana sociale dei cattolici italiani l’approfondimento e la riflessione sulla politica e sulla democrazia continua. Su questi temi è da poco in libreria un saggio (La sapienza politica, Raffaello Cortina Editore) di Luigina Mortari, che con rigore storico e lucidità di analisi si sofferma sull’essenza della politica...

Sapienza e nuove visioni per far svoltare la politica

Conclusa la 50ª settimana sociale dei cattolici italiani l’approfondimento e la riflessione sulla politica e sulla democrazia continua. Su questi temi è da poco in libreria un saggio (La sapienza politica, Raffaello Cortina Editore) di Luigina Mortari, docente ordinario di Epistemologia della ricerca qualitativa presso la scuola di Medicina e filosofia dell’educazione, Dipartimento di Scienze umane dell’Università di Verona, che con rigore storico e lucidità di analisi si sofferma sull’essenza della politica, sui nemici della democrazia e della società libera, su quanto è necessario fare sul piano etico, culturale, valoriale per ridare slancio ad una attiva partecipazione dei cittadini sempre più delusi e sconfortati.

È anche una occasione privilegiata – per usare le parole del card. Matteo Maria Zuppi – “per recuperare la cultura del cattolicesimo in un momento così decisivo per il nostro Paese e per l’Europa”.

L’autrice ha accettato volentieri di dialogare con Verona fedele nell’intervista che segue.

Prof.ssa Mortari, vorrei partire dal titolo emblematico del suo libro La sapienza politica, che viene declinato nel sottotitolo in “Grammatica dell’agire giusto”. Che vuol dire?

«Quando si pensa all’assunzione di ruoli politici, si tende a ritenere che chiunque possa esercitare tale responsabilità indipendentemente dalle competenze in ambito politico. Invece non solo è necessaria una competenza per così dire tecnica riguardo ai temi che la politica deve trattare, ma anche la migliore conoscenza non è sufficiente. La politica, che nell’essenza è governo della cosa pubblica, si esplica nella capacità di pensare lo spazio comune nel modo migliore e deliberare le azioni necessarie a realizzarlo, conservarlo e ripararlo. La politica si può quindi definire come sapienza architettonica della vita pubblica. È architettonica, perché ha bisogno di molte competenze: di visioni creative entro cui coltivare il pensiero che ha il compito di disegnare i paesaggi del vivere; di saperi che forniscono gli strumenti concettuali per comprendere i vari aspetti della vita comune; di abilità progettuali e gestionali necessarie a tradurre in pratica le visioni; del saper deliberare correttamente ogni volta che ci si trova di fronte a un problema. Ma tutte queste competenze non bastano. A essere necessaria è la sapienza politica, che chiede innanzitutto un lavoro su di sé per sviluppare quelle posture della mente e quei modi dell’essere che sono indispensabili per agire con giustezza».

–  La politica e le varie forme di governo della polis sono state “inventate” 2.500 anni fa dai Greci. Nella sua analisi, lei richiama ripetutamente il pensiero di due dei più grandi filosofi del tempo (Platone e Aristotele), cui aggiunge il latino Cicerone. In sintesi ci può dire quali sono le tesi sostenute da questi tre pensatori?

«Per definire l’essenza della politica, Platone indica le azioni che competono a Zeus: mettere ordine e avere cura di ogni cosa; a mettere ordine è l’azione giusta; ad avere cura è l’azione che predispone le condizioni che consentono il pieno fiorire delle capacità di ogni cittadino. Molti fra coloro che aspirano a una carica politica pensano ai privilegi e agli onori che possono acquisire, pensano a quello che possono ottenere per sé. Invece va ricordato che per Platone la politica è la cura della comunità; inoltre afferma che per esercitare un ruolo di responsabilità politica è essenziale avere cura di sé, ossia avere cura dell’anima. È oggi urgente mettere a tema l’idea platonica secondo la quale la sapienza politica è cosa intensamente spirituale, poiché richiede un continuo e profondo lavoro su di sé per assumere le posture mentali e relazionali necessarie a coltivare la vita della comunità nel modo migliore possibile. Aristotele conferma l’essenza della tesi platonica quando sostiene che, per esercitare una buona politica, occorre dedicarsi alla ricerca di una buona condizione spirituale, intesa come quella condizione dell’anima che consegue all’esercizio delle virtù. Poi Cicerone assumerà come fondamentale virtù politica quella dell’onestà. Una virtù che vediamo dimenticata, poco se ne parla e spesso viene tradita da coloro che hanno la responsabilità di gestire i beni pubblici».

La politica è dunque l’arte del governare “in modo giusto e sapiente”. Come si traduce questa concezione sul piano dei valori e delle competenze tecniche che dovrebbero possedere i governanti?

«È essenziale rimettere al centro le virtù dell’agire: il rispetto per l’altro, la gratuità, ossia quell’andare incontro all’altro con generosità libera da ogni pensiero calcolante tipico della logica mercantile, e porsi soprattutto la giustezza, ossia la passione per la costruzione di un mondo dove a tutti siano offerte le condizioni di una vita adeguatamente buona. Oggi le forme di ingiustizia sono tante e profonde. Pensiamo a quelle popolazioni cui vengono sottratte le risorse dei territori in cui vivono da parte di poteri economici sovranazionali e, liberi da ogni sorveglianza politica, sfruttano la forza lavoro di quelle terre senza una giusta ricompensa e in certi casi schiavizzando le donne e i bambini, privati così del tempo migliore della loro vita. Si tratta di un crimine contro l’umanità che resta impunito nell’indifferenza generale. Di fronte a certe azioni andrebbero ricordate le parole pronunciate da Ecuba di fronte a una grave ingiustizia: «Non ci sono parole per dirlo, non ci sono nomi, supera l’incredibile, viola ciò che c’è di più sacro, non si può sopportare» (Euripide, Ecuba, 714-715). Quando la disumanità ferisce l’anima nei primi momenti della vita la persona rischia di perdere il desiderio di vivere pienamente il suo tempo al punto da non saper più ritrovare la strada per ricomporre secondo un ordine di senso la propria vita; tali situazioni dovrebbero risultare insopportabili per la coscienza civile. Oggi più che mai, se attentamente consideriamo la qualità della vita sociale e pubblica che stiamo vivendo, si mostra con cruda evidenza la necessità di una nuova politica, che rimetta al centro ciò che per natura è necessario: «la gentilezza, la giustizia, la generosità», e sappia prendere una posizione decisa rispetto alle azioni che «sottraggono i beni agli altri per il solo vantaggio personale» (Cicerone, De officiis III, 24). Perché dove c’è avidità c’è ingiustizia e dove c’è ingiustizia inevitabilmente c’è sofferenza».

Queste virtù valgono anche ai nostri giorni in una democrazia che parla molto dei diritti e poco dei doveri e che sembra cedere il primato all’apparato tecno-scientifico, all’economia e alla finanza?

«Non c’è politica se l’agire non è ispirato dalle virtù civiche, interpretate e vissute secondo l’etica della cura della comunità. Chi fa della politica un impegno al punto da diventare una professione inevitabilmente viene a occupare posizioni di potere e di privilegio, che impongono innanzitutto di avere cura del potere che si esercita. È questo uno dei concetti politicamente più rilevanti dell’eredità lasciata da Platone, che nella Lettera XI definisce la politica come “cura del potere”. Il potere non è qualcosa da conquistare e di cui si dispone, ma un onere di cui avere cura ponendolo al servizio della comunità. L’esercizio della virtù del rispetto è la condizione essenziale a costruire relazioni di comunità dove ogni cittadino senta di esser parte di una rete di relazioni. La virtù della generosità chiede di condividere con gli altri quanto è necessario a fare della vita un tempo buono. Il principio del condividere è l’esatto opposto della logica liberistica dominante, che fa prevalere come unico valore l’accumulazione del profitto. La solidarietà è il quarto principio fondazionale della dottrina sociale della Chiesa che viene articolato da  Papa Giovanni Paolo II nella lettera enciclica Sollicitudo rei socialis (1987) e non c’è solidarietà se l’anima non è mossa dalla virtù della generosità. Irrinunciabile è la virtù della giustezza, che ha sentire inaggirabile la necessità di adoperarsi perché ciascun cittadino sia posto nelle condizioni di conseguire tutto quanto è necessario per una vita buona. Inoltre, senza onestà non c’è politica, l’onestà intesa come capacità di pensare e di agire nell’ottica del bene comune. Se tutti coloro che ricoprono responsabilità politiche di gestione dei beni pubblici agissero con onestà ci sarebbero le risorse per una buona qualità della vita per tutti i cittadini».

Lei sostiene che occorre “azzardare nuove visioni politiche” e superare l’attuale modello neo-liberista che ha mostrato tutti i suoi limiti in termini di sviluppo squilibrato, di aumento delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali dei singoli e di interi popoli. Come liberare la politica da quella che chiama “l’attuale interpretazione mercantile”?

“Il neoliberismo esalta il principio dell’accumulazione del massimo profitto possibile per se stessi. Chi lo pratica contribuisce alla creazione di gravi ingiustizie. Fino a quando non si cambierà il registro dei principi dell’agire le persone faticheranno a trovare mondi di vita giusti per ciascuno. È tempo, come sostengono ormai in molti, di impegnarsi per transitare verso una politica della cura della comunità che assume come essenziale orizzonte dell’agire i modi delle virtù politiche. È destinata a incontrare notevoli difficoltà questa concezione della politica, perché se fosse autenticamente e diffusamente praticata prenderebbe forma una vita pubblica informata da un paradigma dell’agire che non lascerebbe più spazio a quella visione della vita che è funzionale a certi poteri finanziari e pseudopolitici che consumano il bene comune a vantaggio di pochi. Il neoliberismo per esistere e continuare a dominare ha necessità di quelli che Milbank e Pabst definiscono “bad human habits” (2016, p. 79), che sono esattamente il contrario dei modi di essere concettualizzati dalla politica delle virtù. Oggi la politica è asservita in molte situazioni ai potentati economici che per incrementare i loro profitti non esitano a legittimare un uso della ricchezza che porta a un progressivo indebolimento della maggior parte dei cittadini, i quali privati della possibilità di vedersi riconosciuta un’adeguata sicurezza economica a fronte del loro lavoro non possono che cadere in quella situazione di incertezza che facendo perdere fiducia nel futuro ha immediate ricadute sull’esercizio della cittadinanza. Indebolendo la qualità della vita dei cittadini si scardina alla radice la vita democratica. Per contrastare un’economia che ha perso ogni riferimento etico Milbank e Pabst propongono di lavorare per la creazione di una ”post-liberal economy of virtue”, cioè un’economia che sappia dismettere la logica di una selvaggia rincorsa dei profitti per reinterpretarsi eticamente al servizio del bene comune e della responsabilità sociale. Per questo occorre dar vita ad una nuova cultura politica che metta in discussione in modo radicale le convinzioni su ciò che vale veramente per considerare che il rispetto e il riconoscimento sociale non possono venire dal “merely making money” e dal mostrare astuzia nell’agire illegalmente per il proprio interesse, ma solo dal fare ciò che la coscienza etica riconosce essere di fondamentale valore per una vita pienamente umana. L’etica delle virtù è l’assolutamente altro dalla cultura dominante perché radicalmente opposta alla logica del profitto egoistico; infatti, c’è agire secondo virtù quando si fa quello che è buono e giusto fare semplicemente perché va fatto, perché la coscienza etica lo impone come necessario, non per ricevere vantaggi. Una politica nuova, non più concepita tecnicisticamente ma eticamente solida, che assume come orizzonte simbolico l’etica delle virtù trova però il primo ostacolo in quella retorica, purtroppo diffusa, che accusa questa visione di inutile buonismo. A indebolire ulteriormente questa nuova idea della politica sono molti studiosi secondo i quali l’etica della cura sarebbe in alternativa all’etica della giustizia. Di fatto il neoliberismo ha smantellato ogni criterio di giustizia sociale. Si tratta di un grave errore, prima di tutto teoretico e poi politico. Se una politica della cura è nella sua essenza una politica delle virtù, allora l’etica della giustizia non è in alternativa all’etica della cura, ma costituisce di questa una sua essenziale componente».

Un nemico della democrazia è l’indifferenza dei cittadini, il sentirsi impotenti e quindi estranei alla politica. Le élite dominanti hanno tutto da guadagnare da questo atteggiamento che lascia campo libero al loro agire particulare. A suo giudizio come è possibile far ritornare nei cittadini la passione per la politica che è poi decidere insieme del proprio futuro?

«Innanzitutto occorre ripensare il sistema formativo del paese. Ci si occupa solo di istruzione non di educazione, intesa come azione impegnata a fare fiorire ogni capacità dell’essere. Manca l’educazione etica, quella affettiva e quella politica. Rimettere al centro del progetto educativo la politica significa innanzitutto sviluppare la consapevolezza che siamo esseri plurali destinati cioè a vivere con gli altri. Ma proprio il vivere con altri necessita del sapere politico. Formarsi alla politica significa imparare a riflettere sulla vita in comune, imparare a immaginare il mondo da abitare secondo le coordinate dell’umanesimo, sviluppare le capacità dialogiche, esercitarsi per sviluppare le abilità logiche e discorsive necessarie per  deliberare correttamente, acquisire la consapevolezza che occorre lavorare su se stessi per sviluppare le virtù politiche».

In questa necessaria riappropriazione della sovranità da parte dei singoli cittadini lei scrive che molto dipende da una forte e rinnovata ripresa della dimensione culturale ed etica che sono alla base di ogni “pensare giusto” e di un “agire condiviso”. Nell’attuale situazione di contrapposizione come è possibile promuovere un dialogo costruttivo?

“Il dialogo costruttivo richiede che ciascuno apprenda l’arte dialogica, che chiede non solo abilità discorsive, ma soprattutto una profonda umiltà, quella postura che ci fa entrare nell’incontro con l’altro senza arroccarci nella difesa delle proprie posizioni. L’arte dialogica chiede di sapere decostruire certe barriere mentali con le quali impediamo il reale incontro con il pensiero dell’altro. Laddove c’è violenza non c’è politica e la violenza è anche nella parola: la parola arrogante, quella tesa ad affermare se stessi, la parola che a priori nega valore al pensiero dell’altro, la parola urlata che introduce una tonalità emotiva negativa nel contesto. Conoscendo il potere delle parole il politico responsabile innanzitutto ha la massima cura degli atti discorsivi che pronuncia».

In questo scenario quale può essere a suo giudizio il ruolo dei cattolici che si richiamano alla Dottrina Sociale della Chiesa che fonda l’agire politico sui principi etici e sui valori del servizio, del bene comune, della solidarietà tanto da far dire a Papa Paolo VI che “La politica è la forma più alta della carità”?

«I cattolici devono farsi cittadini del mondo, esercitando la responsabilità politica, sia nella vita quotidiana poiché ogni incontro è sempre politicamente denso, sia assumendo ruoli di responsabilità con l’intenzione di dare un valido e sano contributo alla cura della comunità. C’è necessità di cittadini e politici che siano consapevoli del valore della politica e agiscano mossi dall’intenzione di dedicare il giusto tempo alla cura della comunità. Ci si può astenere in qualche momento dal fare politica e si può decidere di ritrarsi fuori dal mondo. Sospendere il coinvolgimento attivo nella vita pubblica non è necessariamente male per l’individuo, può anzi permettere al singolo di trovare spazi di esperienza essenziali al vivere una vita degna di essere vissuta, ma poi deve venire il momento per agire politicamente nel mondo, perché ogni ritiro, se protratto a lungo, provoca una perdita per il mondo. Più i cittadini si disinteressano alla politica più aumenta la possibilità che si affermi un potere tirannico, perché la tirannia per sussistere ha necessità della superfluità dei cittadini, e agisce per provocare l’annientamento del libero pensare e della disponibilità alla responsabilità politica. Occorre dunque contrastare decisamente il disinteresse per l’esercizio della politica, il senso di impotenza che dilaga diventando stanchezza politica e quello di logoramento delle energie che patiscono spesso coloro che si impegnano».

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