«Qui in ospedale è cambiato tutto di colpo»
Oggi è la Giornata internazionale dell’infermiere: la testimonianza di una professionista che si è ritrovata a lavorare in un reparto Covid-19
«Faccio l’infermiera da 29 anni: non mi sarei mai immaginata uno scenario simile». Si svuotano pian piano le terapie intensive veronesi e lentamente l’emergenza ospedaliera si allenta. Marianna, nome di fantasia, è stata chiamata dalla pediatria a prestare servizio in un reparto convertito a Covid-19. «Il virus non ha guardato in faccia nessuno e lasituazione attuale è ancora molto impegnativa: i pazienti sono anziani e arrivano qui con una situazione fisica parecchio compromessa», dice.
Lavorare esposti al nuovo coronavirus, pur con tutte le precauzioni, non è facile. «Si comincia con la vestizione, che dev’essere molto accurata, seguendo protocolli specifici: dura circa 15 minuti e ci si aiuta a vicenda con l’altro operatore che non usa i dispositivi di protezione individuale (Dpi) – racconta –. I turni sono più lunghi, perché al termine, oltre a svestirci nel modo corretto, si fa una doccia e si torna al domicilio completamente “decontaminati”». Una volta entrati nella tuta e indossati i vari strati di protezione (guanti, cuffia, mascherina, visiera…), «non si può fare nulla se non rimanere vicino alle stanze di degenza, per cui durante tutto il turno non si beve, non si mangia e non si va in bagno». Di notte ci si dà il cambio: «Nelle prime cinque ore l’infermiera professionale indossa i Dpi, nelle seconde cinque subentra un’altra collega». Il lavoro di squadra si è rafforzato, perché non si lavora mai in autonomia: l’infermiere che, bardato, entra in stanza col paziente riceve le terapie orali ed endovenose dal collega “pulito”, rimasto in corridoio.
In questi due mesi, Marianna si è adattata alla situazione e alle modalità di lavoro rivoluzionate. «S’impara a respirare per lunghe ore all’interno della maschera FPP2 – riconosce –. La pressione psicologica è molto elevata: sia quando si opera nelle stanze a contatto con il paziente, sia a casa, poiché si spera sempre di non contagiare nessun familiare; io non mi sono isolata completamente, ma ho cercato di stare molto attenta ai contatti fisici, soprattutto con i miei figli».
Infermieri e personale sanitario sono gli unici anelli di congiunzione col mondo esterno, per chi giace nei letti dei reparti Covid-19. Lo sono pure nell’ora dell’addio. «L’aspetto più difficile in questo periodo è stato proprio dare conforto e supporto, per quanto possibile, ai pazienti ricoverati: sono soli, non possono ricevere visite, spesso non hanno il cellulare o non sono in grado di usarlo; alcuni chiedono notizie di mariti, mogli o genitori ricoverati in altre strutture oppure deceduti a causa del Covid-19, ma ancora non lo sanno», continua l’infermiera.
Ci sono immagini che restano impresse nella mente. «Una non la scorderò mai: una paziente adulta del mio reparto era stata informata durante la notte del decesso del padre, ricoverato nella stessa struttura ma in un altro corridoio – prosegue –. Le abbiamo lasciato la porta della camera aperta mentre passava la barella con il caro defunto, che veniva trasportato alla cella salme. Quel momento è stato particolarmente straziante».
Nell’immaginario collettivo, il personale ospedaliero è diventato eroico. «Non ci sentiamo eroi: svolgiamo il nostro lavoro dove viene richiesto», puntualizza Marianna, auspicando che questa fase 2 di transizione graduale avvenga «con le dovute precazioni» e che le persone «si rechino al pronto soccorso solo per reale necessità, ascoltando la “paura” di mettersi a rischio contagio». E conclude citando, a mo’ di consiglio, Simone Cristicchi: “Adesso che vivi tra le tue quattro mura e osservi la vita da questa fessura, ti senti spaesato, avvilito e depresso, davanti a uno specchio a guardare te stesso, considera il tempo un regalo del cielo, parentesi in cui riscoprirti davvero”.
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