«Dall’inferno del Covid il mio ritorno alla vita»
di LINO CATTABIANCHI
Il contagio, la terapia intensiva, la paura nel toccante diario di Beatrice Boschetti, infermiera in pensione finita in terapia intensiva
di LINO CATTABIANCHI
Non esiste il Covid, generico e senza nome: esistono tanti Covid. Ognuno che lo ha preso in forma leggera o grave ne esce, quando fortunatamente ne esce, con un racconto diverso, con parole ritrovate nella solitudine della propria stanza a casa, nel buio coma del reparto di terapia intensiva, nelle ritrovate capacità di gestire il proprio corpo, come capita, in tutto o in parte.
Un cammino lungo, che conosciamo dai racconti, dai volti che amavamo, dai volti di chi è tornato dall’inferno, dai volti di chi ce l’ha fatta. Ed è a questi che Beatrice Boschetti vuole raccontare il “suo” Covid, nelle pagine del suo diario “dedicato a chi non ce l’ha fatta, a chi non ce la farà, ai loro parenti, a mia madre Renata”. Beatrice vive a Santa Lucia di Pescantina, il polmone verde del paese, la zona rurale che la collega all’Adige.
Una vita lineare quella di Beatrice, sposata con Marco da 32 anni, mamma di Costanza, 30 anni, e Lorenzo, 20 anni, nonna di Angelica, 5 anni. Fino al 2007 infermiera in pediatria all’ospedale Orlandi Bussolengo, ora nonna a tempo pieno. “Ho deciso di scrivere quanto mi è successo perché, a distanza di qualche mese dalla dimissione dal reparto Covid, ho sentito la necessità di esternare tutte le emozioni che tengo dentro e che non sempre riesco a far uscire a parole”, è l’incipit della sua storia.
“Ho sempre avuto molto timore del Covid, profondo rispetto del lavoro degli operatori sanitari e ho sempre rispettato le regole con molta attenzione; eppure io, mio marito e successivamente nostro figlio, ci siamo ammalati. Abbiamo passato un tranquillo e sereno Natale 2020 e mai avrei pensato che da lì a poco mi sarei ammalata. Il giorno di Santo Stefano mi sono svegliata con una strana sensazione, mal di gola ed una stanchezza esagerata, che mi ha costretta a rimanere sul divano a dormire per tutto il giorno. La notte ho iniziato ad avere la febbre con brividi che duravano anche un’ora e che mi facevano male a tutto il corpo.
27 dicembre: è passato così, con febbre ma che con la tachipirina passava. Fino a quel momento non avevo nessun sospetto, credevo fosse una semplice influenza data dal fatto che continuavo ad uscire senza coprirmi in maniera adeguata. 28 dicembre: ho scoperto di aver perso l’olfatto. Così, presa dall’ansia, sono andata subito a farmi il tampone rapido, che è risultato positivo. Ricordo come mi sono sentita quando me lo hanno comunicato. Appena riagganciato il telefono, ho iniziato a piangere”.
Dopo pochi giorni di febbre continua e saturazione bassa, la decisione di chiamare il 118, destinazione ospedale di Negrar. “Saluto mio marito, salgo in ambulanza, mi danno subito l’ossigeno ad alti livelli, partiamo con la sirena accesa e arriviamo al Pronto soccorso. Mi fanno accertamenti di vario tipo, compresi Rx e Tac al torace. Mi mettono una maschera molto aderente sul viso con l’ossigeno. Il primo impatto è stato quello di soffocare così, con la mano, la allontano dalla faccia. Ricordo che la dottoressa e l’infermiere, molto gentilmente, mi rassicurano che poi mi sarei sentita meglio. Così li ascolto e mi lascio mettere la maschera. In effetti mi sono sentita meglio. L’anestesista mi fa mettere sul fianco per avere un ulteriore beneficio”.
Poi la decisione dei sanitari: “Ad un certo punto la dottoressa mi comunica che devo essere ricoverata in terapia intensiva, ma che a Negrar non c’è posto. Si sarebbero attivati per il trasferimento in altra struttura. Ritorna e mi dice che mi stanno aspettando in Borgo Trento. L’infermiera mi dice che mi deve mettere il catetere. Ho dovuto mettere da parte l’imbarazzo di dover farmi vedere senza indumenti e con la stanza piena di gente. Non era proprio il momento. Non riesco ancora a capire la gravità della situazione, la dottoressa non vuole spaventarmi e non mi dice quanto sono compromessi i miei polmoni”.
All’arrivo alla terapia intensiva Covid di Borgo Trento, la rapida decisione di un medico. Racconta Beatrice: “Ad un certo punto è arrivato un medico. Molto gentilmente, ma con fermezza, mi ha detto: Signora, i suoi polmoni sono compromessi, le sue condizioni sono gravi. La dobbiamo intubare! Un colpo al cuore. Ero lì da sola, senza il conforto di mio marito, senza poterlo vedere, salutare. Magari per l’ultima volta. Ricordo di aver avuto una brevissima reazione di sconforto, ma il medico, tenendomi la mano, mi ha ribadito quanto grave io fossi e che l’intubazione si rendeva necessaria come ultima possibilità di salvezza. In quel preciso momento ho capito di aver perso definitivamente il controllo della mia vita. Che, da quel momento in poi, avrei dovuto accettare qualsiasi cosa sarebbe successa. Anche la possibilità di morire. Sì, ho proprio pensato alla morte e non ho avuto paura”.
“Mi ha messo in mano un tablet chiedendomi se volevo mandare un messaggio a mio marito. Gli ho scritto: andrà tutto bene. E un cuoricino. Mentre scrivevo, pensavo se quello sarebbe stato il mio ultimo messaggio. Mi ha detto che loro avrebbero pensato a chiamare giornalmente mio marito per tenerlo informato delle mie condizioni. Mi racconterà, mio marito, che è stato così”.
“Buio, silenzio, il nulla: da quel momento è sceso il buio. Ancora confusione, dolore, carezze, cuccioli, ma voglio vivere. E ho iniziato a sentire delle voci femminili. Dicevano il mio nome. Mi ritrovo sveglia, non so quanto tempo è passato. Non posso parlare, ho ancora il tubo endotracheale. Sono in un letto, con le mani legate, con la maschera per l’ossigeno. Sono molto confusa, guardo le infermiere muoversi e parlare. Alterno momenti in cui sono sveglia ad altri dove dormo profondamente. Non ricordavo cosa mi era successo. Sentivo questo tubo che mi usciva dalla bocca, non capivo cos’era e, a volte, cercavo di masticarlo. Muovendolo però stimolavo la tosse e questo portava le infermiere ad aspirarmi. Ecco, questa era la pratica più terribile per me. La sensazione di soffocare mi faceva impazzire, cercavo di liberarmi le mani che erano legate. Loro erano bravissime nel cercare di tranquillizzarmi.
Ricordo quando, ancora intubata, un’infermiera mi ha chiesto se avevo voglia di vedere mio marito. Non so da quanto tempo non lo vedevo. Ho fatto segno di sì con la testa. Ha preso il tablet, si è seduta vicino a me e ha fatto la chiamata. Tentavo di tenere con le mani il tablet, ma queste erano debolissime e mi cadeva sul letto. Improvvisamente ho visto mio marito. Ha iniziato a parlarmi con molta calma. Mi ha rassicurata che a casa stavano tutti bene. Una lacrima mi scendeva dagli occhi e quell’angelo di infermiera me l’asciugava con una garzina. Mi ha detto di stare tranquilla perché ero seguita in maniera egregia, che i medici e gli infermieri erano bravissimi. Mi ha detto che mi amava tanto. Ero felice ma anche molto frastornata e confusa. Mi sembrava di essere la protagonista di un film”.
“Alcune emozioni erano azzerate. Mi sono trovata senza più il tubo endotracheale, ma la voce ancora non c’era. Avevo sete ma, nonostante i miei sforzi, non riuscivo a farmi capire. L’infermiera mi ha messo davanti un grande album plastificato con le lettere dell’alfabeto. Volevo segnare con il dito ‘Ho sete’. Ma quando il dito, a fatica, è arrivato alla H, è scivolato perché non avevo forza. Ha girato pagina, c’erano delle figure. Ho individuato un bicchiere o forse una bottiglia e gli occhi mi si sono illuminati. Ho sentito l’infermiera dirmi: Ah, ma allora hai sete! Mi ha portato una garzetta imbevuta di acqua per farmela succhiare. Quando hanno visto che riuscivo a deglutire senza problemi, è arrivata la bottiglietta d’acqua con la cannuccia. Che soddisfazione! La voce ritorna (non alla normalità però), ho sete, tanta sete. Iniziano le mie richieste che fanno tanto ridere il personale. Chiedo se è possibile avere una spremuta d’arancia. A risposta negativa, chiedo allora se possono mettere un cubetto di ghiaccio nell’acqua; passo allora al limone. Mi sono dovuta accontentare dell’acqua naturale a temperatura ambiente. In effetti era molto buona”.
Dalla terapia intensiva a pneumologia Covid semi-intensiva, in un alternarsi di stati di veglia e di allucinazioni, Beatrice finalmente comincia il percorso di ritorno. Ma è tutto in salita: il corpo, segnato pesantemente dal Covid, pesa 16 kg di meno. “Ho iniziato a prendere coscienza di quello che mi era successo e sono iniziate a scendere le prime lacrime”. Riprendono i contatti telefonici regolari con i propri cari, poi comincia lentamente la fisioterapia e finalmente il “soldato Beatrice” si rimette in piedi, uno sforzo immane, assistita dall’esercito degli “angeli” del reparto. “Cammino ancora fino ad arrivare alla finestra. Ritorno a letto. Andrà sempre meglio. L’ossigeno viene progressivamente diminuito fino a sospenderlo definitivamente. Divento più socievole, parlo più volentieri. La voce è più sicura e forte, ora parlo tutti i giorni con mio marito. Gli dico che sono stanca, voglio tornare a casa. Lui mi risponde sempre la stessa cosa e cioè che, una volta negativizzata, mi avrebbero portato in un reparto non Covid per fare riabilitazione. La mia risposta a lui è sempre la stessa e cioè che questo è un complotto contro di me”.
“Le giornate scorrevano veloci, intervallate dai momenti come colazione, pranzo, cena”: ora il racconto va verso la fine, il ritorno a casa, la riscoperta degli affetti forti di Costanza e Lorenzo, la vita da ricominciare. Un debito di riconoscenza inestinguibile verso tutti: medici, infermieri, personale, familiari, amici. Ecco la conclusione di Beatrice: “Vicino al mio letto, in ospedale, c’era sempre una sedia con i braccioli. La tenevo lì come aiuto quando mi alzavo. Spesso mi succedeva, quando chiudevo gli occhi, di vedere la figura di mia mamma. Con una mano si appoggiava alla sponda, mentre con l’altra mi accarezzava la fronte. Con questa immagine io mi addormentavo. Quando mia mamma era in vita e io la andavo a trovare, spesso mi ringraziava per quello che io facevo per lei. Naturalmente le rispondevo che non era necessario perché lo facevo volentieri. Allora, per farla sorridere le dicevo: a buon rendere. Vorrà dire che, se un giorno avrò bisogno di aiuto, tu ci sarai? La sua risposta era sempre questa: Certo, in qualunque posto mi troverò, farò il possibile per aiutarti. Ecco, io voglio credere che lei abbia mantenuto la sua promessa”.
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