Mons. Zenti, tempo di bilanci: «La mia Verona grande e fragile»
di STEFANO ORIGANO
Al timone della diocesi per 15 anni, ore le dimissioni e l'attesa del successore
di STEFANO ORIGANO
Trasferito dalla sede di Vittorio Veneto l’8 maggio 2007 alla cattedra di S. Zeno, il veronese mons. Giuseppe Zenti fece il solenne ingresso a Verona il 30 giugno successivo. Nato a San Martino Buon Albergo il 7 marzo 1947, è stato ordinato sacerdote il 26 giugno 1971 da mons. Giuseppe Carraro, eletto Vescovo di Vittorio Veneto il 3 dicembre 2003 da Giovanni Paolo II, consacrato Vescovo l’11 gennaio 2004 da mons. Flavio Roberto Carraro nella Cattedrale di Verona. Nel suo curriculum ricordiamo la laurea in Lettere classiche, l’insegnamento e la formazione nel Seminario minore per vent’anni, poi l’impegno pastorale come parroco a Santa Maria Immacolata (1993-97) e Legnago (1997-2002) prima di diventare Vicario generale della nostra Diocesi nel 2002.
Giunto alla soglia del 75º compleanno, seguendo la regola generale, consegnerà al Papa per mezzo del Nunzio apostolico la lettera di dimissioni con la quale inizia l’iter per la nomina del nuovo vescovo. Nelle prossime settimane, o forse nei prossimi mesi, avremo modo di conoscere la scelta del Papa per la guida della Chiesa veronese negli anni a seguire.
Con mons. Zenti abbiamo ripercorso questi ultimi 15 anni nei quali ha tenuto il timone della diocesi scaligera, periodo caratterizzato da cambiamenti profondi e da eventi la cui portata non è ancora possibile calcolare per intero. Anche nella vita della Chiesa.
– Vescovo Giuseppe, che cosa ha pensato quando, nell’ormai lontano 2007, le hanno comunicato che il Papa aveva scelto lei come Vescovo di Verona? E che cosa ha provato tornando nella terra di origine come Vescovo?
«Ricordo che in quel periodo, stando a Vittorio Veneto, circolavano molte voci sui “papabili” per Verona e tra questi c’era anche il mio in compagnia con quello di alcuni miei confratelli vescovi che erano ben più quotati ad affrontare una situazione come quella di Verona. Quando ho ricevuto la comunicazione, in brevissimo tempo ho risposto, ma non è stato un “sì” dato allegramente, consapevole di alcune difficoltà già sperimentate come vicario generale; ne ricordo solo tre per tutte: la situazione economica della diocesi; la questione del seminario; i rapporti con i tradizionalisti. È stato comunque un “sì” serio, ma non sconfortato».
– La prima azione che ha messo in cantiere al suo ritorno in diocesi qual è stata?
«Il primo passo è stato quello di ri-sintonizzarmi con il clero diocesano: un movimento necessario, da entrambe le parti, è stato quello della ri-accoglienza: fino ad allora ero stato un confratello e da lì in avanti anche vescovo. Ad oggi posso dire che mi sono trovato bene e ho avuto la conferma sul campo che il clero veronese nel suo insieme è sano, capace di grandi slanci (una volta si diceva “zelante”) e non privo di lampi di genialità anche nelle condizioni più difficili come quelle che hanno caratterizzato gli ultimi due anni con la pandemia. I “miei” sacerdoti, come amo dire con un pizzico di orgoglio, non si sono appiattiti, ma hanno reagito con coraggio e determinazione anche davanti ai cambiamenti repentini dettati dall’emergenza improvvisa».
– Anche qualche spina non è mancata...
«Ho sofferto personalmente per i sacerdoti che hanno lasciato il ministero; per me è stata una devastazione dover chiedere le pratiche di dispensa dal ministero e al contempo non poter provvedere alla continuità della presenza del parroco in alcune parrocchie. C’è poi un dato chiaro che preoccupa tutti: durante il mio episcopato, ad oggi, ho ordinato 93 preti novelli e ho celebrato i funerali di 202… Tuttavia, al di là dei numeri, Verona a livello vocazionale ha tenuto bene e i giovani sacerdoti sono buoni e inseriti in un presbiterio amato dalla propria gente. Dico con serenità che in cuore non porto rancore verso nessuno».
– Amministrare una diocesi comporta anche gestire una realtà che è paragonabile ad una azienda, e non delle più piccole. Com’è andata questa partita?
«Direi un po’ e un po’. Problemi economici non sono mancati: non si fa in tempo a risolverne uno che subito se ne presenta un altro, poi magari salta fuori una questione lasciata in sospeso in passato… Ma non li ho mai considerati preminenti. Ho avuto la prova diretta che nella nostra terra c’è una grande sensibilità: la gente è solidale, soprattutto quella “comune”, auspico che in futuro tutti lo diventino, anche i più abbienti. A Verona opera una Caritas diocesana esemplare e significativa non solo nell’organizzazione centrale, ma anche a livello di base. Attualmente la situazione si è fatta molto complessa per tante famiglie a rischio di povertà, perciò abbiamo scelto di finalizzare il nostro patrimonio immobiliare per questo scopo, mettendo direttamente a disposizione le unità abitative o mettendo a reddito quelle maggiormente remunerative».
– Dunque la risorse non mancano.
«No, anzi, ma vorrei sottolineare soprattutto quelle umane e a questo riguardo vorrei spendere una parola in più sulle unità pastorali che non intendono omologare o azzerare le parrocchie, quanto piuttosto metterle in rete condividendo gioie e fatiche. L’obiettivo è quello di creare delle équipe formate da sacerdoti e laici a servizio di territori un po’ più ampi e aperti al territorio. Il Consiglio di unità pastorale ha il compito di tenere insieme tutti gli ambiti valorizzando le ricchezze di ogni parrocchia e garantendo sostegno nei lati deficitari. La strada per il futuro è tracciata: discernere la volontà di Dio mettendosi in ascolto della situazione seguendo le indicazioni fornite dal Papa per il Sinodo e sintetizzate in quattro verbi: esserci, ascoltarci, discernere, condividere. Ma poi, se vogliamo parlare di risorse, non posso dimenticare il clima collaborativo a livello ecumenico, l’opera unica svolta dai nostri centri di pastorale, la presenza degli ordini religiosi con i propri carismi specifici, la vivacità dei movimenti ecclesiali, l’impegno delle nostre associazioni: l’Azione cattolica, l’Unitalsi, l’Agesci, il Noi, il Csi e il mondo dello sport (che nel nostro territorio è ancora vitale nonostante le limitazioni causate dalla pandemia e che non ha nulla da spartire con alcune frange impazzite e violente del tifo), gli alpini e tutti gli altri che non sto qui ad elencare, ma che ringrazio di cuore per l’impegno profuso».
– Tante questioni tornano quotidianamente alla ribalta come la violenza che inquina le famiglie, il disagio dei ragazzi e le problematiche relative alla disabilità. Come giudica Verona in questo momento?
«Tutto indurrebbe a farci pensare che la società sia irrimediabilmente avariata; io invece penso che sia solamente bisognosa di recuperare la dimensione dell’interiorità e lo sta manifestando lanciando segnali di allarme che non vanno trascurati. La maggioranza delle famiglie e dei giovani sono comunque sani e costituiscono una risorsa su cui si può far conto per il futuro. La nostra società è molto di più di quello che racconta la cronaca».
– Come ha vissuto il rapporto con l’Amministrazione civile e le altre autorità pubbliche in questo periodo?
«Nel rispetto dei ruoli e degli ambiti propri di ciascuno c’è sempre stata collaborazione, soprattutto nel cercare sinergie e risposte condivise alle situazioni di disagio e penso in questo momento alle fatiche enormi che devono sopportare le famiglie che portano un peso immane come quello dell’autismo: ho conosciuto questa realtà e mi sta molto a cuore».
– In attesa delle decisioni di papa Francesco, cosa cambierà nella sua vita con il “pensionamento”?
«Questi 15 anni sono stati importanti per me, mi hanno fatto bene e, anche nel crogiolo di tanti travagli, sono maturato nell’umanità, nella sensibilità, nell’attenzione e anche nella fede che mi fa considerare Dio al di sopra di ogni altra cosa. Il mio episcopato da ora in avanti non sarà più sul “campo”, ma in “panchina”, cioè a disposizione. Sento forte il bisogno di passare gli anni che il Signore mi vorrà concedere nella contemplazione dell’Eucaristia e nella preghiera per tutto il popolo di Dio. Verona sarà sempre nel mio cuore, ma lascerò campo pienamente libero, senza ombre ed invadenze al mio successore al quale auguro di amare questa città meravigliosa e la sua gente eccezionale, con le sue complessità che non devono spaventarlo, ma spingerlo a prendere al volo le opportunità che fioriscono da una indubitabile storia fatta di santità. Il mio stato d’animo è sereno, vivo in pace con me stesso questo passaggio e, per quanto dipende da me, sono in pace con tutti; prego per tutti, anche coloro che non si sono sentiti amati o compresi a sufficienza».
– E naturalmente sempre in compagnia di sant’Agostino...
«Indubbiamente. È sempre stato un punto di riferimento e una miniera sconfinata di ispirazione per essere un vero pastore d’anime come lui. Ho sempre dedicato tutto il tempo libero che mi era concesso alla lettura e alla traduzione delle sue opere che ho cercato anche di divulgare ai più. Ritengo sant’Agostino un amico geniale e un compagno di viaggio formidabile come uomo prima, come sacerdote e vescovo poi. Sono in dirittura d’arrivo altre pubblicazioni con cui voglio essere riconoscente a chi mi ha dato tantissimo».
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