Migliaia di mani strette e di parole dette
di NICOLA SALVAGNIN
Il vescovo Domenico racconta impressioni e ricordi della sua visita ai 14 vicariati della diocesi
di NICOLA SALVAGNIN
Quattordici vicariati visitati (manca Verona Centro, tra una settimana, ma gioca in casa); almeno un centinaio di eventi e incontri ai quali ha partecipato; sicuramente più di un migliaio di mani fisicamente strette dalla sua; e più di 10mila persone incontrate nel corso di questi 5 mesi in cui il vescovo di Verona, mons. Domenico Pompili, ha voluto perlustrare la sua diocesi in ogni suo anfratto. Lui che era arrivato qui tre mesi prima da Rieti e che conosceva Verona per sommi capi. Sicuramente più la città che la provincia o la parte bresciana.
Da qui la decisione di una full immersion ufficiosa, ma estremamente intensa – da venerdì a domenica per ogni vicariato – che culminerà sabato 20 e domenica 21 maggio a San Zeno: festa del patrono, ma anche occasione per un messaggio alla città che inaugurerà una tradizione. Tempo quindi di stilare un primo bilancio di questa tournée che lo ha visto solcare le terre diocesane a piedi, in auto, in bus, in battello (sul Garda)... Manca la mongolfiera, ma non diciamolo troppo in giro perché sennò, la prossima volta...
– Eccellenza, che diocesi ha scoperto in questi mesi?
«Una terra bellissima, con panorami molto differenti: lo splendido Garda in entrambe le sponde, le montagne, le vallate, la vasta pianura, gli angoli di una città che ora conosco meglio... E ho trovato tanta gente, fedeli o meno, che era incuriosita dalla presenza del vescovo, ma anche desiderosa di uscire, di confrontarsi con gli altri, di comunicare e di stare assieme. Una situazione sociale che ha sicuramente un benessere diffuso, con una bella presenza di realtà educative, ricca di servizi e di iniziative. Una buona qualità di vita in generale, se guardiamo al panorama nazionale».
– Lo stato d’animo dei veronesi?
«Da una parte ho rilevato che i postumi della pandemia non sono ancora stati smaltiti. Non c’è dubbio che abbia ferito molti, è stata una vera cesura. Questo ha bloccato molte attività avviate, ha allontanato alcuni dalle chiese, dalla vita parrocchiale: c’è da recuperare. D’altra parte, oggi c’è una forte voglia di provare a vivere nuove forme di socialità, di “uscire fuori”. Se c’è stato un filo comune di tutti questi incontri, è stato proprio il desiderio delle persone di ritrovarsi insieme, capire quanto sia gratificante lavorare e fare insieme agli altri, capire che così si possono superare le difficoltà contando anche sugli altri».
– Ha parlato con moltissime persone. Cosa le hanno detto?
«Ho visto tante persone con... gli occhi belli sgranati, che non si avvicinavano per pura circostanza. Ho avvertito un grande desiderio di raccontarsi, di provare a dire la propria esperienza, sia quella della fede, del proprio vissuto ecclesiale; e poi le dinamiche familiari, lavorative, la condizione degli anziani, lo smarrimento ma anche il dinamismo dei ragazzi di oggi... Mi ha colpito questo desiderio di comunicare cosa si sta vivendo. Questa visita, per quanto lampo, nei vicariati, è stata preparata con una serie di appuntamenti che hanno messo insieme le persone nei diversi ambiti e quindi la sorpresa che ho scorto in molti visi è stata quella di comprendere che lavorare insieme sia tutto sommato un’esperienza gratificante».
– Abbiamo bisogno degli altri, abbiamo bisogno di dialogo.
«Soprattutto oggi. E di trovare qualcuno che ti ascolta, che presta attenzione. Un esercizio che aiuta le persone a “venire fuori”. E poi ho scorto l’esigenza di avere una visione un po’ più ampia rispetto alle singole situazioni, alle difficoltà. Di avere uno sguardo su tutta la realtà. Un ritorno al Vangelo, che ti permette di avere una visione a 360 gradi. E poi ho avvertito fortemente il desiderio di avere una maggiore creatività, cioè di non fare sempre le stesse cose, ripetere quanto si faceva “prima” e basta; ma di provare strade nuove, modalità differenti, intuizioni originali. Non per il gusto di fare le cose “in modo strano”, ma per il bisogno di corrispondere meglio a questo cambiamento in cui siamo immersi».
– Che odore aveva il gregge di pecore nel quale si è mescolato il pastore, per usare un’immagine cara a papa Francesco?
«Da una parte un senso di smarrimento esistenziale che è tipico delle società del benessere, laddove ti accorgi che la corsa a possedere nuovi beni è fine a sé stessa e non ti realizza; un certo languore dell’anima che riscontro diffusamente. Ma mi hanno colpito di più le tante forme di solidarietà che esistono tra le persone. Decine e decine di esperienze, di realtà, di situazioni di vicinanza verso i più deboli, i più fragili, i più emarginati. Volontariato, servizio, cura, prossimità, vicinanza: devo dire che, sopra tutto, ho avuto la bella impressione dei tanti che qui a Verona si prestano per fare qualcosa di utile per gli altri. Magari l’ho riscontrato più nelle persone meno giovani...».
– Sono meno impegnati?
Sorride: «No, sono proprio pochi dal punto di vista numerico, i giovani. La denatalità non è più un concetto astratto, ci sbatti addosso. Poi ti rinfranchi guardando l’Arena strapiena di scout...».
– Anche se poi tocca sentire assurde polemiche per una Messa celebrata davanti a migliaia di tranquillissimi fedeli...
«Sono cose che fatico a capire, al di là degli aspetti burocratici. Concerti rock strapieni sì, una Messa no... Non mi pare che si metta a repentaglio la salute del monumento, né che si discriminino altre forme religiose laddove dovrebbero trovare anche loro spazio senza problemi».
– Che mondo religioso ha trovato tra i 14 vicariati?
«Ho trovato un clero ben radicato nel territorio, presente nella società in cui vive. La cosa che più mi ha colpito della Chiesa veronese è che la parrocchia non è solo chiesa e liturgia, ma è spesso oratorio, campo sportivo, circoli Noi, spazio per gruppi e associazioni, addirittura per scuole non statali e per case di riposo... È una Chiesa che interagisce bene a livello sociale, educativo, sportivo, assistenziale; che da tanto tempo ha realizzato una felice integrazione tra Vangelo e società (e i suoi santi ne sono esempio). Certo, pur con qualche difficoltà evidente, perché anche qui ci sono fenomeni di disaffezione alla pratica religiosa, di minore partecipazione. Mi pare però di cogliere nel complesso una grande consapevolezza e un forte impegno dei laici – che sono coloro che portano avanti tutta una serie di attività collaterali – nel voler tornare a essere comunità».
– In sintesi?
«Mi pare che sia stato molto interessante il modo di raccontarsi di tutti, dai quali spiccano tre elementi: le fratture, le situazioni di difficoltà che si vivono e che l’esperienza del Covid ha acuito; i germogli, le cose che cominciano a spuntare dal terreno, un’attenzione speciale per il mondo delle famiglie, dell’educazione, della cura dei fragili. Infine le prospettive: tra queste una maggiore capacità di lavorare assieme superando atavici campanilismi che frazionano e impoveriscono le comunità, con il desiderio di trovare linguaggi e forme per far sì che il cammino della fede possa essere partecipato da persone che vivono ai margini della Chiesa. Che è e deve essere missionaria».
– Si chiude a Verona centro, con un suo messaggio alla città sabato 20 maggio a San Zeno in occasione della festa patronale. Una novità per noi.
«Come si usa in altre comunità, sarà un momento di riflessione condivisa con tutte le persone che si occupano di far andare avanti questa città. È in concomitanza con la festa patronale, che non è solo un richiamo al passato, ma anche (lo dice il nome) alla “patria comune”, ciò che ci muove insieme pur nelle distinzioni e nelle inevitabili differenze che esistono in qualsiasi società pluralista. Il desiderio è quello di porre ogni anno in evidenza un punto, e di ragionare su questo».
– Il “punto” di quest’anno?
«Sarà il Salmo 127 (126): “Se il Signore non costruisce la casa, invano vi faticano i costruttori”. Costruire la casa comune implica da parte di tutti lo sforzo di andare al di là delle personali prospettive, e di lavorare assieme per il bene comune. Ma non anticipiamo troppo».
– Certo. Passiamo allora alle cose serie: cosa ha portato a casa da quest’esperienza, gastronomicamente parlando?
Sorride e si passa una mano sul volto: «Beh, con i giovani una quantità di spritz... (non così usuali per un laziale come lui, ndr). In generale, ricordo tanti buoni risotti».
E anche questi poco usuali per chi non viene dalle terre del Vialone Nano e non sia convinto, come invece è opinione comune a Isola della Scala, che il Maestro – prima di condividere il pane e il vino – si sia nutrito con un buon risotto al tastasàl. All’onda, e non secco e sgranato come fanno quegli infedeli dei mantovani.
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