Medici, terapia intensiva per evitarne la scomparsa
Camici bianchi verso l'estinzione? Ambulatori e ospedali senza medici. «Il peggio arriverà nel 2022: rimediamo o la sanità andrà in tilt»
Camici bianchi verso l’estinzione? Ambulatori e ospedali senza medici
Corsa alla pensione per chi ha una certa età mentre scarseggiano le nuove leve
È una specie in via di estinzione quella dei camici bianchi? Domanda che vale come provocazione nell’Italia dei paradossi. Viviamo nel Paese in cui c’è la fila di aspiranti studenti che si presentano ai test d’ingresso delle facoltà universitarie di Medicina e Chirurgia: oltre 60mila i candidati del 2018, di cui appena 9.779 hanno superato il setaccio della programmazione ministeriale. Perciò, da tempo, s’invoca a gran voce l’abolizione del numero chiuso: scappatoia che permetterebbe di avere più professionisti della salute a disposizione e di sanare l’emorragia di medici diagnosticata da tempo. Sarebbe davvero così?
Facile a dirsi, meno a mettere in pratica questa soluzione. Specialmente se si passa dalla prospettiva delle università (Verona compresa) che non sono pronte, quanto a personale e a dotazione di strutture per la didattica, ad accogliere orde di matricole che, per formarsi, hanno bisogno sì di aule, ma pure di laboratori oltre che di docenti.
Poi ci sono le scuole di specialità: qui siamo di fronte a un secondo collo di bottiglia che non permette a chi è già in parte formato, dopo anni di lezioni e pratica nelle corsie degli ospedali, di proseguire la specializzazione e quindi di completare l’iter per arrivare a pronunciare l’agognato giuramento di Ippocrate. Non sufficienti sono le borse di studio oggi erogate. E anche qui a farla da padrone nelle decisioni è il Miur: il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca infatti, in previsione della prospettata emorragia sta rivalutando la programmazione in maniera più oculata rispetto al passato.
Una virata che comunque, sostengono i sindacati e le associazioni di categoria, servirebbe per tamponare, ma non sarebbe utile a “curare” la penuria di camici bianchi da arruolare nelle fila del Sevizio sanitario nazionale sia pubblico che territoriale. Con parecchi dottori, ormai a un passo dalla pensione, che non vedono l’ora di appendere al chiodo il fonendoscopio, oberati da straordinari e sopraffatti dalla burocrazia. I pensionamenti previsti dalla legge Fornero porteranno nel 2025 a un ammanco di camici bianchi, rivela una ricerca condotta dal sindacato Anaao Assomed. Le carenze principali interesseranno pediatri, medici di urgenza ed emergenza, medicina interna e radiologia.
Dall’altra parte, a quanti già pensionati, in Veneto è stata di recente data la possibilità di tornare a essere assunti (o meglio riassunti) regolarmente. All’appello mancano circa 1.300 camici bianchi, conteggia la Regione secondo cui con questa strategia volta al recupero si colmerebbe il gap, permettendo alle nuove leve di affiancare figure di esperti e favorendo in tal modo lo scambio di conoscenze. A vantaggio, nemmeno a dirlo, del benessere dei cittadini. Ma sarà veramente così? I nodi da sciogliere sono altri.
Marta Bicego
«L’accesso programmato rimane Solo così si tutela la qualità formativa»
Sartor, rettore dell’ateneo scaligero: casomai aumentarlo di un 10%
Togliere l’accesso programmato e spalancare le porte delle università a troppe matricole? Non è la ricetta giusta per sanare le lacune nel campo della medicina. E sulla qualità della formazione non è intenzionato a trattare Nicola Sartor, rettore dell’ateneo scaligero.
Come a dire: sul numero chiuso, peraltro ora esteso alle facoltà umanistiche, nemmeno si discute. «Serve una programmazione degli accessi, in particolare per un percorso di studi lungo e impegnativo come quello che richiede il conseguire una laurea in Medicina e Chirurgia. Ciò premesso, non è detto si voglia mantenere questi numeri specifici per sempre, anche nella prospettiva di crescita dei professionisti», rimarca.
L’asticella si può alzare nell’ordine del 10%, garantendo comunque percorsi qualitativamente elevati a risorse invariate in termini di aule e personale docente; già spingersi al 20% richiederebbe una riflessione interna all’università e qualche sacrificio. «Per andare oltre questi incrementi, serve un aumento delle risorse sia in termini di personale che di spazi. Diversamente, temo potrebbe essere pregiudicata la qualità dell’insegnamento, intesa come avere aule e laboratori a disposizione per un percorso formativo utile a formare professionisti ai quali affideremo in futuro le nostre vite», evidenzia.
Altro scoglio s’incontra con le specializzazioni: «Se pensiamo alla questione relativa alla carenza di medici, è proprio questo il livello su cui intervenire. Agendo soltanto sul numero chiuso, i primi effetti di questa scelta li vedremo probabilmente tra dieci anni. L’ampliamento delle borse per le scuole di specialità oggi assicura professionisti a disposizione in tempi rapidi». Il nostro Paese, incalza Sartor, si dimostra essere poco lungimirante: «Non dobbiamo arrivare nell’imminenza del problema per renderci conto della sua gravità».
Nell’ambito delle specialità mediche e ospedaliere, gran parte delle borse è stabilita dal Ministero; altre se ne sommano, messe a disposizione a livello regionale o provinciale nel caso di Verona, dato che le province autonome di Trento e Bolzano non hanno una scuola medica. Questa carenza è stata segnalata al Governo, riferisce il rettore: «C’è un gruppo di lavoro ad hoc attivato, all’interno della conferenza dei rettori delle università italiane, che cerca di trovare il giusto contemperamento tra aumento dei numeri e mantenimento degli standard qualitativi. Il punto fermo, che non dev’essere messo in discussione, rimane mantenere un adeguato percorso formativo – conclude –. Siamo dunque in attesa di deliberazioni ministeriali». [M. Bic.]
◤ L’INTERVISTA
«Il peggio arriverà nel 2022: rimediamo o la sanità andrà in tilt»
Rossi (Anaao): «La strozzatura delle specialità, la fuga all’estero, i concorsi...»
L’operazione era piuttosto semplice: guardare in prospettiva, e con lungimiranza, l’età dei medici in servizio. E non servivano i massimi sistemi per capire che le fila dei camici bianchi si sarebbero assottigliate sempre più.
Segnali di allarme li aveva manifestati, ancora nel 2010, l’Anaao Assomed del Veneto: a confermarlo è il vicesegretario regionale dell’associazione dei medici dirigenti, Andrea Rossi. E, nello svelare previsioni poco rosee, snocciola dati preoccupanti: «Avevamo previsto che, tra il 2015 e il 2025, sarebbe avvenuta la gran parte dei pensionamenti frutto della pletora medica. Negli anni Ottanta, prima cioè dell’introduzione del numero chiuso, c’era un eccesso di medici che in sostanza ha portato a saturazione il sistema. Erano gli anni di boom nel numero di letti, di primariati, degli ospedali che si tendeva ad aprire piuttosto che a chiudere. Al tempo il sistema sanitario non era considerato spesa da tagliare e ridurre, ma risorsa per assistere i cittadini che, tendenzialmente, volevano tutti curarsi sotto casa».
– L’onda lunga di questo tsunami arriva dal passato. Ora a che punto siamo?
«Secondo le stime della Regione, mancano 1.295 medici. Le maggiori criticità riguardano in modo particolare alcune categorie: professionisti che lavorano nei pronto soccorso, quindi specializzati in Emergenza e urgenza, poi le specialità di Anestesia e rianimazione, Pediatria».
– Guardando invece più lontano, ma nemmeno troppo, cosa ci dobbiamo aspettare?
«È previsto che in Italia, nei prossimi dieci anni, andranno in pensione 47.400 medici. Corrispondono al 46% degli attuali lavoratori. In Veneto circa il 54% dei camici bianchi ha un’età superiore a 55 anni, ciò significa che sono già nel decennio che li porterà al pensionamento. I medici veneti ad andare in pensione saranno 3.800: per oltre la metà, ovvero 2.300, la pensione arriverà entro cinque anni. Entro tre anni, i pensionati in camice bianco saranno 2.150, pertanto l’annus horribilis sarà il 2022. Ma i correttivi vanno posti adesso, altrimenti ci troveremo con una mancanza tale da non riuscire a mantenere i servizi nemmeno nei nosocomi più grandi».
– La questione è ampia: coinvolge il percorso di studi universitari, nelle battute iniziali. E non solo...
«Il numero chiuso è giusto: servono criteri di selezione in modo tale che l’accesso ai servizi della didattica sia svolto in situazioni adeguate: studiare Medicina richiede internati all’interno dei reparti, laboratori di tutoraggio. Che poi le modalità di selezione possano essere migliorate, non c’è alcun dubbio...».
– Come, per esempio?
«Il ministro dell’Istruzione ha di recente dichiarato di voler aggiungere più cultura generale nelle prove ministeriali di accesso all’università di Medicina e Chirurgia, a discapito della logica: questo non ha assolutamente senso. Piuttosto, le modalità di valutazione dovrebbero essere studiate sulla predisposizione caratteriale a fare il lavoro del medico, che non è un mestiere qualsiasi ed è piuttosto delicato. Una valutazione per scegliere i futuri medici dal punto di vista delle doti umane potrebbe basarsi sul giudizio espresso da parte delle scuole di provenienza».
– Altro scoglio è quello dell’imbuto formativo, nel momento in cui il laureato approda alle scuole di specializzazione...
«Abbiamo 11mila laureati ogni anno in Medicina e Chirurgia a fronte di 7mila borse di studio, per quest’anno aumentate a 8mila. Significa che soltanto i due terzi accedevano alla scuola di specialità, che costituisce l’unico sbocco occupazionale. Gli altri aspettavano l’anno dopo, poiché le borse di studio non erano sufficienti. L’ulteriore adeguamento richiede uno sforzo da parte dello Stato, sia economico che organizzativo, e degli atenei».
– Ci sono novità in tal senso?
«Il ministro Grillo prospetta un nuovo paradigma per coinvolgere nella rete formativa gli ospedali di insegnamento: strutture che, pur non essendo universitarie, prevederebbero la presenza di tutor nominati per istruire e formare gli specializzandi. Questa è una buona soluzione, suggerita tra l’altro dall’associazione Anaao Assomed, sebbene ancora sulla carta. Consentirebbe di ampliare una formazione di qualità, con lezioni e valutazioni che rimarrebbero in carico alle università e criteri standardizzati per le scuole di specialità che devono avere requisiti riconosciuti all’estero».
– Facciamo un passo ulteriore in avanti, quando i professionisti formati si inseriscono nel mondo del lavoro. Il panorama è vario, tra chi sceglie di trasferirsi all’estero e chi lascia il pubblico per rifugiarsi in strutture del privato convenzionato. Sono sintomi anche questi di un malessere?
«Sì. La fuga verso l’estero riguarda in particolare i laureati che non hanno ottenuto una borsa di studio in Italia. Ora c’è un altro fenomeno emergente: lo scouting da parte di altri Paesi come Svezia, Norvegia, Germania e Inghilterra che cercano specialisti italiani, pagandoli il doppio di quello che sono pagati qui. Spesso i nostri colleghi sono contattati per posizioni altamente remunerative rispetto allo stipendio che c’è qui. Oggettivamente, al di là del contratto nazionale fermo da dieci anni nel pubblico, l’adeguamento contrattuale che ammonta a meno di 200 euro non ripiana comunque la differenza di compensi degli altri Stati europei. In Italia servirebbe una rivoluzione per trattenere questi medici in fuga».
– Per quanto riguarda l’esodo verso le strutture private?
«La problematica è reale: il privato convenzionato permette di lavorare lo stesso, ma con minore stress, perché ha un sistema basato sulla programmazione. Il privato fa solo ciò che, dal punto di vista remunerativo, gli conviene. Tutto il resto lo lascia al pubblico. Il punto è che nelle nuove schede ospedaliere della Regione Veneto abbiamo avuto un passaggio di 833 letti al privato, che non sono posti per acuti. Non servono cioè l’urgenza e l’emergenza, di cui si ha bisogno e invece si sta depotenziando».
– Può esemplificare?
«Se ho un incidente, vado nell’ospedale di riferimento, che non posso depotenziare. Anzi, devo motivare i medici del pronto soccorso che lì operano perché altrimenti a loro conviene trasferirsi in una struttura più piccola, e privata, dove c’è più serenità lavorativa. Il punto è che le questioni di carenza di organico, che peggioreranno, costringeranno chi rimane a tentare di scappare via. Si entra in un circolo vizioso: se non si ripianano in continuazione gli organici degli ospedali fondamentali, se non si assicura nei reparti il costante turnover, la gente cercherà sempre più di uscire da questo meccanismo».
– Gli ingranaggi del sistema scricchiolano...
«Il problema delle carenze è generalizzato. I bandi fatti da ottobre 2018 dall’Azienda Zero, che organizza tutti i concorsi per la nostra Regione, prevedevano 246 posti. A entrare nelle graduatorie, quindi a essere assunti, sono stati 118. Siamo già in carenza se ai concorsi non si presenta nessuno. Nella legge di bilancio licenziata a gennaio, sempre su spinta di Anaao Assomed, è stato inserito come emendamento che gli specializzandi dell’ultimo anno possano partecipare con graduatoria particolare ai concorsi. Questo è l’unico modo per tamponare l’insufficienza di medici».
– Ma la Regione, però, ha richiamato i pensionati…
«Non abbiamo bisogno di pensionati che facciano una sala operatoria qua e una là, ma di persone giovani che coprano le notti, i sabati, i giorni festivi. Abbiamo professionisti di 60-65 anni da togliere dalle guardie pesanti, perché possano fare il diurno e affiancare gli specializzandi. Cerchiamo di assumere tanti giovani. Rimettere in corsia i pensionati non è la soluzione, ma la toppa, che però è peggio del buco...».
– Dal 3 maggio sono in programma una serie di incontri promossi dalle organizzazioni sindacali. Quali saranno i temi caldi che discuterete?
«Siamo tra i promotori di queste assemblee unitarie, in tutte le Ulss del Veneto, per protestare contro le schede ospedaliere e il piano socio-sanitario regionale per come è stato concepito. Infatti prevede una serie di criticità: il passaggio di letti dal pubblico al privato convenzionato dal 16 al 21%; la scomparsa delle post acuzie e delle lungodegenze trasformate in ospedali di comunità, non si sa bene come gestiti. La novità è che nella prima assemblea si riuniranno medici, infermieri e tecnici. Ormai è inutile che ognuno combatta la sua battaglia: è in gioco il Sistema sanitario nazionale che è una risorsa per i nostri genitori, i nostri figli e per noi che possiamo essere un domani utenti. Stiamo perdendo un bene comune, istituito quasi quarant’anni fa, per interessi trasversali. Senza, purtroppo, la volontà politica di salvare il Sistema sanitario nazionale». [M. Bic.]
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