Mani sfruttate per portare cibo sulle nostre tavole
Nel dl Rilancio indicazioni fumose: regolare il lavoro nero rimane un miraggio
«Perché possiamo. Perché dobbiamo». È arrivato il momento di cambiare le cose una volta per tutte: questo l’appello accorato di Aboubakar Soumahoro, sindacalista del Coordinamento agricolo dell’Unione sindacale di base, difronte all’approvazione dell’articolo 103 del decreto Rilancio. Si tratta di un provvedimento nato per indicare con quali modalità e per quali categorie lavorative i cittadini e le cittadine stranieri presenti in Italia possano accedere alla regolarizzazione del loro contratto di lavoro.
Inasprita dalla recente crisi sanitaria da Covid19, la problematica del lavoro in nero andava rivista soprattutto per la mancanza di braccia nei campi, fondamentali per far ripartire il settore primario. Si stima che siano pervenute circa 220mila domande di regolarizzazione all’Inps, allo sportello immigrazione del ministero dell’Interno e alle questure. Le tempistiche troppo lunghe dell’approvazione, le indicazioni fumose e generiche e i numerosi requisiti delineano però un quadro che a oggi è ben lontano dal migliorare concretamente la situazione.
Ma quali sono le linee guida del decreto Rilancio? Possono presentare l’istanza i datori di lavoro italiani o stranieri in possesso del titolo di soggiorno, pagando 500 euro per ogni lavoratore da regolarizzare. I destinatari sono i cittadini stranieri che hanno soggiornato in Italia prima dell’8 marzo 2020 e che siano in possesso di un rapporto di lavoro già esistente e/o il cui datore di lavoro sia disponibile all’assunzione o alla sua conferma. Compreso anche chi ha il suo visto scaduto dal 31 ottobre 2019 e voglia richiedere un soggiorno temporaneo di 6 mesi su suolo italiano (versando 130 euro). Tagliati fuori gli stranieri che cercano lavoro, che non sono mai stati registrati dallo Stato o con precedenti penali. Sono valide esclusivamente le domande presentate dal 1° giugno al 15 agosto di quest’anno. Le falle del provvedimento sono molte: i settori produttivi ammessi riguardano agricoltura, allevamento e zootecnia; assistenza alla persona; lavoro domestico di sostegno. Fuori quindi il settore edilizio, quello manifatturiero e della ristorazione. Chi appartiene a questi ambiti deve dichiarare di svolgere un altro lavoro per poter sperare di usufruire del provvedimento. Sempre che il datore di lavoro voglia versare 500 euro per ogni singolo lavoratore coinvolto nella procedura di regolarizzazione.
Non ultima, la grave mancanza di un controllo medico-sanitario per il lavoratore straniero. «Ma quale sanatoria? La permanenza in Italia da parte dello straniero è ostacolata; non ci può stare e nemmeno lavorare con tutte le tutele che sarebbero necessarie», spiega Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e presidente del Consorzio italiano di solidarietà. «Ci sono più di 500mila stranieri irregolari in Italia, di cui la maggior parte vittime di sfruttamento lavorativo ed emarginate dalla società. Se ci aspettiamo che le regolarizzazioni avvengano per emersione, ovvero tramite i datori di lavoro che tutelano i loro sottoposti o gli stessi immigrati che si palesano alla legge, dobbiamo dar loro i presupposti per farlo. Soprattutto in un periodo storico in cui la salute individuale e collettiva vanno protette particolarmente. Basta alle aziende che pagano il permesso di soggiorno ma non lo stipendio, o che si atteggiano a tiranne schiaviste moderne! Tutti hanno diritto alla dignità». Schiavone si interroga sulle ragioni per cui chi ha un permesso scaduto prima del 31 ottobre non possa avere sostegno, e teme che se il decreto non verrà aggiornato e reso più inclusivo, avverrà un tacito via libera alla criminalità e alla vita di espedienti. Si lamenta di una mentalità chiusa che si fonda sul “prima noi italiani”, senza pensare che la logica del branco va contro la Costituzione: non stiamo parlando di concessioni, ma di adempimento della legge. Una regolarizzazione, insomma, «terribilmente iniqua e pasticciata», come la definisce il vicepresidente Asgi, che ha causato non poco scontento.
Numerosi i migranti scesi in piazza per manifestare, come Anetu, che da tre anni lavorava in Italia come cuoco fino all’arrivo del Covid. «Vogliamo combattere per i nostri diritti, non vogliamo solo venire qui e mangiare e dormire, ma lavorare, pagare le tasse, avere una casa nostra. Vogliamo una cosa bella», spiega. Mbala si lamenta dei settori esclusi dal decreto, il quale chiude gli occhi sui problemi di chi ci lavora. Dello stesso avviso Moses: «La sanatoria ha creato tensione. Doveva diminuire lo sfruttamento, ma non è stato così. E anche volendo cambiare lavoro per rientrare nei parametri della legge, come possiamo fare oggi, con la crisi? Durante il lockdown, in molti erano senza documenti e la possibilità di accedere a qualche bonus per sopravvivere. Come facciamo a contribuire al benessere del Paese?».
Ciò che si chiede, sopra tutto, è una regolarizzazione vera e gratuita. Da quando è partita il 1° giugno, non sono state evase nemmeno la metà delle domande arrivate (siamo intorno alle 80mila, in particolare riguardanti chi lavora per la cura della persona e nel settore agricolo). Fondamentale anche un minimo di orientamento per gli operatori degli sportelli e dei centri adibiti a vagliare le richieste dei migranti, che non sanno come procedere. Parla Ilaria Menin (patronato Acli-Servizio Immigrazione): «Per quella che è la mia esperienza, i permessi provvisori permettono ai datori di lavoro di non regolarizzare i dipendenti stranieri, e delegano a questi ultimi la responsabilità. Inoltre, anche se il datore di lavoro volesse stabilizzare il rapporto, sarebbe sommerso dalla burocrazia. Allora molti migranti provano ad ottenere tutta la documentazione grazie ai parenti e ai capi di questi. Ma chi è da solo? Chi non ha nessuno in terra natale che possa fornirgli i documenti necessari alla domanda? Chi viene imbrogliato? È un’ingiustizia che gli stranieri debbano affidarsi nelle mani dei loro capi, che sembrano avere diritto di vita e di morte. In attesa di ulteriori chiarimenti dal Ministero, aiutiamo i migranti come meglio possiamo». L’obiettivo: una società che include e per questo evolve. Grazie a chi in Italia ci è nato e a chi vuole cominciare, ma per davvero, la vita qui.
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