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Ma questo Governo ci crede al volontariato?

Leggi ferme, fisco aggressivo, tetto al 5xmille: tre indizi... «Chiediamo rispetto e regole certe per il terzo settore»

Parole chiave: Onlus (1), Società Civile (1), Fragilità (4), Volontariato (88), Terzo Settore (19), Anziani (38), Malati (2), Disabilità (40), 5xmille (1)
due giovani persone presentano il loro lavoro all'interno di un laboratorio artigianale

Decreti rinviati o lasciati nel cassetto; una riforma del terzo settore impantanata; la voglia di tartassare onlus e associazioni,; la scelta dello Stato di tenersi la quota del 5 per mille che supera il tetto dei 500 milioni di euro... Tutti segnali che fanno capire che l'esecutivo gialloverde – per varie e spesso opposte ragioni – non tiene particolarmente a cuore tutto un mondo senza il quale la vita di milioni di italiani sarebbe ben peggiore. Peccato: tra il niente e il "fa tutto lo Stato", c'è ampio spazio per quella società civile che da sempre si occupa delle fasce più deboli della popolazione: anziani, malati, persone con disabilità e fragilità varie...

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Lo scorso 21 maggio il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, rivolgendosi ai vescovi italiani riuniti per l’assemblea generale, ha affermato: «Innanzitutto, avverto una crescente preoccupazione per la situazione che si è venuta a creare con la riforma del terzo settore. Al fondo restano ancora antichi pregiudizi per le attività sociali svolte dal mondo cattolico; pregiudizi che non consentono di avere ancora una normativa adeguata a rispondere alle esigenze di centinaia di migliaia di persone, dedite al prossimo e alle persone bisognose. Si tratta di un mondo di valori e progetti realizzati, di assistenza sociale, di servizi socio-sanitari, di spazi educativi e formativi, di volontariato e impegno civile. In una società libera e plurale questo spazio dovrebbe essere favorito e agevolato in ogni modo. Per questo non si può che rimanere sconcertati vedendo che al Paese intero si manda un segnale di segno opposto, intervenendo senza giustificazione alcuna per raddoppiare la tassazione sugli enti che svolgono attività non commerciali. Al Governo chiediamo non sconti fiscali o privilegi, ma regole idonee e certe, nel rispetto di quella società organizzata e di quei corpi intermedi che sono espressione di sussidiarietà; risposta di prossimità offerta al bene di ciascuno e di tutti; risposta qualificata dall’esperienza e dalla creatività, dalla professionalità e dalle buone azioni».

«Chiediamo il rispetto e regole certe per il terzo settore»
Dalle preoccupazioni del card. Bassetti a quelle di un mondo disorientato
Nel terzo settore e nella comunità veronese, in particolare partendo da quei servizi nati dalle grandi intuizioni e dal carisma di padri e madri fondatori così generativi tra Ottocento e Novecento, da qualche anno si riflette sulla necessità di costruire vere relazioni di rete, ma soprattutto di farlo per il bene della persona e come occasione per vivere, anche nel lavoro e nel volontariato, un cammino di crescita condiviso.
Questa esperienza sistematizzata, in diocesi a Verona, ha preso il nome di Associazione diocesana delle opere assistenziali (Adoa) e lavora, partendo da una identità cristiana chiara, per mettersi in continua e costruttiva sintonia con il mondo; cercando il percorso più giusto e più efficace per tenere la persona al centro del pensiero e della pratica sociale, economica e politica; stimolando e realizzando esperienze di prossimità e solidarietà anche tra gli enti.
Una delle relazioni tra le più significative in questo cammino è quella con l’Università degli Studi di Verona, resa concreta attraverso l’impegno di studio e ricerca di docenti capaci e impegnati, che abbiamo deciso di incontrare per approfondire la riflessione sulle preoccupazioni espresse dal card. Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, che nell’ultima Assemblea generale dei vescovi ha ribadito con forza: «Chiediamo rispetto e regole certe per il terzo settore!».

L’economista: «Le radici tengono ma i frutti non arriveranno più
Tra le preoccupazioni espresse dal presidente della Cei, card. Bassetti, al primo posto viene lo stallo della riforma del terzo settore.
Abbiamo chiesto un commento al prof. Giorgio Mion, docente dell’Università di Verona, direttore del Corso di perfezionamento in Etica d’impresa “Giorgio Zanotto”.
– Professore, sono legittime le preoccupazioni del card. Bassetti?
«Purtroppo sì. Questa riforma del terzo settore non riesce a prendere il largo. Il suo iter parlamentare è stato lunghissimo già prima della legge delega che, ricordiamo, ha compiuto tre anni il 6 giugno. Poi tra l’emanazione dei decreti legislativi e attuativi, si è inserito un cambio di Governo e di politiche molto vistoso. È legittimo temere che non si giungerà mai a una destinazione. Sarebbe davvero grave…».
– Perché?
«Anzitutto per le aspettative, forse eccessive, che attorno a questa riforma sono state create durante la precedente legislatura. Difficile ora pensare a un terzo settore che si “ritira” nella mera continuità delle leggi precedenti (sempre che sia possibile). Il terzo settore si fonda molto sulle motivazioni personali e comunitarie: mortificarle porterebbe a un danno incalcolabile. E poi una riforma in mezzo al guado è quanto di più deleterio ci possa essere per qualsiasi sistema sociale ed economico. Non so immaginare cosa potrebbe succedere».
– Qualche mese fa, proprio sulle colonne di Verona Fedele, avevamo scritto un suo pensiero sulla continuità ideale del terzo settore nonostante la riforma. È ancora convinto di questo?
«Assolutamente sì. Anzi, in questo frangente di incertezza normativa e politica, è proprio il “mondo di valori” di cui parla il presidente della Conferenza episcopale italiana che può resistere. Il problema oggi è avere gli strumenti giuridici, fiscali e manageriali per sostenere questi valori, senza logorare la buona volontà di tanti che lavorano nel sociale, come volontari o altro. Usando una metafora botanica, il rischio oggi è quello di tagliare un albero con radici profonde: queste possono resistere, ma intanto i frutti non arrivano più».
– Perché secondo lei questa lentezza nell’attuare la riforma?
«Penso ci sia poca conoscenza di quanto il terzo settore italiano (e quello cattolico in particolare) sta facendo in termini di coesione sociale e di benessere delle persone e delle comunità. E poi c’è uno strisciante ritorno all’idea della relazione diretta tra cittadini e Stato paternalista. Tutte cose che pensavamo ormai morte e sepolte… Ma non perdiamo la speranza: molte delle grandi opere sociali cattoliche, anche nel nostro territorio veronese, nacquero negli anni dello Stato liberale e del non expedit».
– Cosa può succedere ora? E cosa possono fare le organizzazioni del terzo settore?
«Primo: niente panico. Ora è il tempo di essere vigili, tenendosi pronti per le scadenze future di adeguamento statutario, quando diverranno obbligatorie. Senza fretta, senza ansia, ma con la consapevolezza che ogni volta che si deve cambiare qualcosa in un’organizzazione, questo può essere un pesante adeguamento burocratico, ma anche una preziosa occasione di verifica e di miglioramento. Questo è un momento per avere visione strategica: saldo riferimento nella propria mission, vigile attenzione allo scenario, con atteggiamento proattivo. Infine, un’ultima cosa importante è quella di tornare a fare politica, in termini positivi: essere presenti sul territorio, comunicare quanto si fa senza falsi pudori, esprimere pacatamente le proprie opinioni... Anche questo è un compito profetico che il terzo settore cattolico può ritrovare».

Il pedagogista: «Non solo ricavi ma anche qualità delle relazioni»
Sul tema abbiamo voluto sentire anche il parere di Claudio Girelli, ricercatore in Pedagogia del Dipartimento di Scienze umane dell’Università di Verona.
– Lei è un pedagogista, si occupa di educazione, perché si interessa anche di lavoro ed economia? Non le pare di essere “fuori tema”?
«La domanda fa emergere un pregiudizio che porta pesanti conseguenze nella nostra vita, secondo cui il lavoro e l’economia sono aspetti tecnici che non riguardano i percorsi di crescita delle persone. La realtà ci mostra che è vero proprio il contrario! Ridurre le persone al loro ruolo lavorativo e identificare il fine delle aziende con la massimizzazione del profitto, impoverisce le persone e la qualità umana di una comunità».
– Cosa intende? Se l’economia funziona produce ricchezza, benessere per le persone…
«Certamente, ma il problema è quale benessere, per quale fine. Guardare la realtà dalla prospettiva educativa ci chiede di leggere nella quotidianità cosa aiuta le persone (anche gli adulti, non solamente i bambini!) a crescere, a “fiorire” nella loro umanità. Il benessere economico è una condizione importante perché una persona possa avere una vita dignitosa, promuovere le sue potenzialità e vivere felice. Ma non sufficiente. Sono le relazioni positive il centro della vita. Senza di esse il benessere non produce felicità, pienezza di vita personale e sociale».
– Parlando di terzo settore e di volontariato, le relazioni ne costituiscono il cuore. Da quel che accade a livello nazionale, sembra che ci si creda poco.
«È preoccupante. Lo dico proprio come pedagogista. Queste vicende, che in questi mesi Avvenire ha ben documentato e denunciato, sono il segno di un problema culturale più profondo: l’affermarsi di un modo individualistico di leggere la realtà, dove si considera l’interesse personale come unica motivazione dell’agire delle persone. Le attività del terzo settore e il volontariato in generale nascono e si muovono in altri orizzonti, promuovono un’altra idea di persona, di società e di motivazione all’azione. Chi fa volontariato, lo fa anche per un proprio interesse, non però economico, bensì di senso e relazionale. Tutte cose che non entrano nei bilanci economici, ma alimentano la vita delle persone!».
– Come vede il contributo che tali realtà danno al nostro Paese?
«Altre prospettive mettono in luce il contributo economico e di efficacia nella risposta ai bisogni delle persone che queste realtà realizzano. Leggendo la realtà dal punto di vista pedagogico, il loro contributo è, se permette, ancora più importante. Infatti esse nascono da motivazioni non egoistiche e si basano su relazioni positive, significative e le generano a loro volta. La loro azione culturale ed educativa è fondamentale proprio perché ricreano relazioni basate sulla reciprocità e sul riconoscimento reciproco».
– Lei sta ponendo l’attenzione sulla qualità delle relazioni che queste realtà promuovono?
«È proprio così. Infatti, esse permettono di sperimentare relazioni gratuite, interessate cioè all’altro per quello che è e non per quello che ha o per quello che rappresenta. Tutto questo produce servizi e risposte ai bisogni concreti delle persone, ma a livello culturale promuove fiducia e apertura reciproca, che sono la base di relazioni capaci di attivare e sostenere le risorse delle persone. Solo così il territorio, da spazio anonimo diventa luogo da abitare, comunità di relazioni che consentono la crescita di ognuno».
– C’è quindi un compito non solo economico, ma anche sociale e culturale?
«Certamente. Infatti uno Stato, una società che non comprende e non crede più in queste realtà, ha un grave problema culturale ed educativo, perché ha perso il senso profondo dello stare in relazione e del vivere sociale».

«Quei soldi ci hanno permesso di dare più risposte ai più fragili»
Il caso della coop Monteverde di Badia Calavena
Visto dal basso, da chi ogni giorno è impegnato a fornire servizi alle persone più fragili, il tetto al 5 per mille suona come una presa in giro. «Va tolto, perché questo è uno strumento che permette a tante realtà come la nostra di fare la differenza sul territorio, migliorando l’organizzazione e le progettualità offerte», osserva Francesco Tosato, direttore dei servizi generali della cooperativa sociale Monteverde. A Badia Calavena sono 60 le persone con disabilità seguite nel centro diurno, ma gli utenti diretti della onlus salgono a più di duemila l’anno in tutta la provincia, contando i vari servizi (attività nelle scuole per studenti con disturbi dell’apprendimento, progetti per minori disabili con disturbi dello spettro autistico, consulenze psicologiche…).
È una firma che ha un grande peso, quella che oltre 2.600 persone hanno deciso di destinare alla cooperativa radicata in val d’Illasi, attiva dal 1986. «Per noi il 5 per mille rappresenta un canale privilegiato per dare risposte concrete ai bisogni specifici della comunità – sottolinea il responsabile –. È prezioso e al contribuente non costa nulla, essendo legato alla dichiarazione dei redditi, un adempimento obbligatorio».
Dieci anni fa Monteverde registrava un introito di circa 10mila euro legato a questa voce. Un “tesoretto” derivante da mezzo migliaio di firme, corrispondenti ai contatti più stretti della cooperativa: una cerchia di familiari, simpatizzanti e amici, che davano fiducia a Monteverde al fine di incentivarne il mantenimento delle attività e favorirne lo sviluppo. «Poi abbiamo iniziato a fare delle campagne di comunicazione più strutturate, favorendo la conoscenza di questa possibilità e rafforzando la collaborazione col territorio, che ha risposto con grande generosità – prosegue Tosato –. Oggi l’introito derivante dal 5 per mille si aggira sui 100mila euro e rappresenta il 5% del fabbisogno economico totale della cooperativa, quindi un mattone importante».
I fondi hanno permesso a servizi come i centri diurni di Badia Calavena di raggiungere elevati livelli di qualità, consentendo investimenti sempre maggiori rivolti alle persone con disabilità. Negli ultimi anni, inoltre, in affiancamento a mirate campagne di raccolta fondi, il 5 per mille ha contribuito a finanziare pure dei percorsi specifici per rispondere a bisogni emergenti, come i disturbi dell’apprendimento. Il tutto con un coinvolgimento dei potenziali donatori, a cui viene spiegato e rendicontato a che cosa servono i fondi raccolti e chi ne beneficerà, nella massima trasparenza.
Uno stile che è stato ripagato anche dai numeri e ha permesso alla cooperativa di contare su un’entrata in crescita nel tempo. Solo lo scorso anno, per esempio, sono state 76 in più le persone che hanno apposto la firma accanto al codice fiscale della coop: un risultato tra i più incoraggianti a livello veronese.
Questi i pro di una presenza apprezzata per il valore sociale del suo operato e “premiata” direttamente col 5 per mille, strumento tutto sommato agile e capace di intercettare vari interlocutori (dipendenti, lavoratori autonomi, pensionati, dirigenti, imprese). I contro? «Fino all’ultimo c’è sempre l’incertezza sulla cifra che verrà erogata dall’ente pubblico: la comunicazione ha tempistiche tardive, si aggira sui due anni – elenca Tosato –. Inoltre non conosciamo il nome di chi ci ha destinato il 5 per mille, ma solo il numero; l’ombra più minacciosa però resta quella del tetto, che tradisce la scelta di tante persone. È una decisione davvero miope da parte dell’ente pubblico, che toglie delle risorse destinate con una precisa volontà al terzo settore, rischiando un effetto boomerang in futuro, poiché potrebbe aprire la strada a un’impennata di richieste di aiuto che saranno a carico, in prima battuta, della pubblica amministrazione stessa». [V. Soa.]

Il 5 per mille in crescita ma lo Stato lo vuole per sé
Sfondato il tetto dei 500 milioni. Il volontariato: lasciatecelo tutto

Chiara Tommasini

Un’impennata di generosità che rischia di essere erosa. Nel 2017 gli italiani hanno scelto di destinare il 5 per mille delle loro imposte ad associazioni, onlus, ong ed enti di ricerca, superando il tetto dei 500 milioni di euro previsti dalla legge. Quell’in più ora però rischia di restare nelle casse dello Stato ed essere usato per altri scopi. Ecco perché le tante realtà che usano questi fondi per dare servizi ai più deboli chiedono di non vanificare le volontà espresse dai cittadini con la dichiarazione dei redditi.
«Il superamento del tetto dei 500 milioni è un bel segnale di questo Paese, un dato positivo che indica la disponibilità dei cittadini verso il terzo settore – sottolinea Chiara Tommasini, presidente del Centro di servizio per il volontariato di Verona –. Ma è necessario aumentare il fondo: gli analisti stimano almeno 20 o 50 milioni di euro in più. L’impegno è stato preso direttamente dal Governo, consapevole della necessità di innalzare le risorse per il 5 per mille, ma si tratta di una decisione che coinvolge anche Mef e Agenzia delle Entrate. E molto dipenderà dalle disponibilità finanziarie».
A Verona, dove si contano oltre 400 realtà iscritte al Csv, si guarda con attesa alle decisioni romane. «Chiaro che, nei momenti di difficoltà generalizzata, far venir meno risorse a uno dei settori più vitali e cruciali della società civile non è un bel messaggio. Attendiamo, con fiducia», dice la presidente.
Il 5 per mille si traduce in servizi, progettualità e investimenti per il mondo del volontariato. Rappresenta un’indubbia boccata d’ossigeno. Cosa accadrebbe se venisse ridotto? «Immaginiamo per un attimo che scompaiano tutti coloro che prestano assistenza gratuita negli ospedali, che trasportano gli anziani alle visite mediche, che fanno gli animatori nei campiscuola parrocchiali, che cucinano alle sagre, che intervengono con la protezione civile durante le calamità, che danno una famiglia a chi non ce l’ha, che tengono aperti i centri di aggregazione, che sostengono i malati terminali, che insegnano l’italiano a chi non lo parla… Non è difficile ipotizzare conseguenze nefaste per milioni di italiani, soprattutto i più fragili e meno tutelati».
Il 67% delle scelte del 5 per mille va alle associazioni onlus (organizzazioni non lucrative di utilità sociale), segno che è ancora grande la fiducia riposta nel mondo del volontariato. «Il 5 per mille è cresciuto esponenzialmente negli ultimi 13 anni: oltre a essere un canale importante, è una scelta politica e sociale con cui i cittadini segnalano ciò che è meglio fare per risolvere un determinato problema – evidenzia Tommasini –. Inoltre, è un meccanismo che richiede una rendicontazione trasparente e una comunicazione efficace per farsi conoscere: ha stimolato le associazioni nella loro attività di promozione sul territorio e le ha senz’altro aiutate a evolversi».  
Sul tavolo, tra i nodi da sciogliere, c’è anche quello del 5 per mille “inoptato”, cioè non espressamente assegnato. «È una cifra che va dal 10 al 15% del totale ed è ridistribuita a favore dei più grandi (un terzo del totale), ma potrebbe essere invece utilizzata per sostenere i più piccoli – aggiunge la presidente –. E poi c’è il problema dei fondi residui: nel caso di soggetti che cessano l’attività, le risorse a loro destinate vanno a finire nel residuo passivo e tornano nel bilancio generale dello Stato. Bisogna pensare a come orientare questi fondi rispetto all’intenzione dei contribuenti».
Tommasini è pure vicepresidente della rete dei Csv italiani. Che aria tira a Roma per il terzo settore? «È una bella domanda. Tra Codice e Impresa sociale ci sono oltre 40 atti che devono essere prodotti e siamo ancora a meno della metà – riferisce –. Tra i più importanti, oltre al Registro unico, possiamo ricordare quello relativo alla definizione delle cosiddette attività secondarie, che è stato già approvato dalla cabina di regia. È importantissimo perché riguarda il modo in cui si autofinanzia la gran parte degli enti di terzo settore. Poi c’è tutta la parte fiscale, sulla quale si è ancora lontani. Tutte queste istanze devono trovare delle risposte. L’attenzione della politica a parole c’è, ma va concretizzata in atti concreti. Questo chiediamo».
Adriana Vallisari

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