Le “comunità resistenti” che provano a migliorare il mondo
di ANDREA DI FABIO
Storie di persone che si oppongono a soldi e intimidazioni per il bene comune. In Ecuador la battaglia di una donna ha aiutato le comunità indigene
di ANDREA DI FABIO
“Non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare”. Le parole che lo scrittore inglese John R.R. Tolkien mette sulla bocca del personaggio Gandalf, ne Il signore degli anelli, sembrano sintetizzare lo spirito con cui ogni giorno migliaia di uomini e donne, nei Paesi in via di sviluppo, combattono per difendere i propri diritti e la propria terra. A differenza della saga fantasy, i nemici da fronteggiare non sono oscuri signori che vivono in montagne lontane, ma manager in giacca e cravatta, che viaggiano con valigette piene di soldi e lavorano per multinazionali spesso senza scrupoli.
A contrastare lo sfruttamento illegale delle risorse naturali che, sotto forme diverse, va avanti da secoli, sono cittadini pronti a rischiare tutto pur di non rinunciare alla propria dignità. Le loro storie sono state le protagoniste dell’ultimo “Martedì del mondo”, organizzato dai padri comboniani. All’evento hanno partecipato mons. Giuseppe Mirandola, direttore del Centro Missionario Diocesano; Mario Mancini, presidente del Mlal (Movimento laici America Latina); e Raffello Zordan, giornalista di Nigrizia e presidente del Cestim. Attraverso collegamenti in diretta e testimonianze di attivisti e missionari in Africa e America Latina, l’incontro ha dato voce alle battaglie spesso dimenticate di chi ha deciso di non inginocchiarsi di fronte al dio denaro lottando per modelli di sviluppo alternativi e sostenibili, nel rispetto delle persone e del creato.
La prima vicenda riguarda la cittadina di Kabwe, in Zambia. Nell’ottobre scorso la comunità locale intenta un’azione legale collettiva (class action) contro il colosso minerario Anglo American, con sede in Sudafrica, accusandolo pubblicamente di essere il responsabile dell’inquinamento da piombo del territorio. Per decenni Kabwe ospita una delle più grandi miniere al mondo: nel 2019 gli scienziati conducono uno studio su oltre mille persone e rilevano la presenza di livelli allarmanti di piombo nel sangue, stimando danni permanenti alla salute per almeno 100mila tra donne e bambini. Gli avvocati sostengono che l’azienda sudafricana, proprietaria dei giacimenti dal 1925 al 1974, non abbia mai fatto nulla per proteggere la popolazione locale. Il piombo è altamente nocivo per l’uomo e, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), non esiste esposizione priva di effetti collaterali. Oggi la comunità di Kabwe lotta a colpi di processi, sentenze e appelli e sta portando avanti con coraggio la propria battaglia contro le ingiustizie subite nei tribunali di Johannesburg, in Sudafrica.
In Ecuador la storia dell’attivista indigena Nemonte Nenquimo (nella foto) è la prova che Davide ha ancora qualche chance di vittoria contro Golia. Tutto inizia nel 2012 quando il governo del presidente Raffael Correa decide di vendere al miglior offerente alcune zone della foresta amazzonica, ricche di idrocarburi e abitate da comunità indigene. All’asta partecipano una serie di multinazionali del petrolio interessate a sfruttare i giacimenti dell’area: si tratta di 800mila ettari di terreno, assegnati in modo collettivo a 12 comunità Waorani, sui quali, però, lo Stato mantiene la giurisdizione del sottosuolo.
Gli abitanti indigeni non vengono coinvolti nel processo di compravendita e rifiutano di abbandonare la terra in cui vivono da millenni. La leader locale Nemonte Nenquimo organizza la resistenza guidando un movimento di opposizione che, tra sit-in, manifestazioni e sfilate, mette in imbarazzo il governo ecuadoriano. Dalla campagna prende il via un’azione legale che, nel 2019, porta a una sentenza storica: il verdetto riconosce il diritto dei nativi – stabilito dalla Costituzione nazionale e dall’Onu – di essere interpellati “in modo adeguato” sul destino dei territori in cui abitano.
La giustizia dà quindi ragione a Nemonte Nenquimo e la concessione dei permessi di trivellazione nell’area viene bloccata. La vittoria stabilisce un importante precedente legale per i diritti degli indigeni, in Ecuador e non solo: oggi altre tribù stanno seguendo le orme dei Waorani per proteggere le proprie case dalle attività estrattive.
La terza storia è ambientata nel nord del Perù, nella regione di Cajamarca, dove si trova la più grande miniera d’oro a cielo aperto dell’America Latina. Il giacimento è di proprietà dell’impresa statunitense Newmont Mining Corporation, attraverso la società controllata Yanacocha. Da anni l’azienda cerca di ampliare l’area di sfruttamento: il progetto, però, genera polemiche perché potrebbe distruggere i quattro laghi di montagna che forniscono ai contadini di cinque vallate l’acqua per bere, coltivare la terra e allevare animali.
Una donna decide quindi di opporsi ai piani della compagnia, mettendosi di traverso con la sua casa e la presenza della sua famiglia: si chiama Máxima Acuña e nel 1994 ottiene legalmente 24,8 ettari di terra situati nei pressi della miniera, che ora non vuole abbandonare per nulla al mondo. In più occasioni i mercenari assoldati dalla Yanacocha distruggono parte della sua abitazione, devastano il raccolto di patate e inquinano l’allevamento di trote, ma l’attivista e i suoi due figli non fanno un passo indietro.
Nonostante le pressioni, le minacce e le intimidazioni, Máxima Acuña non solo resiste a nome della comunità e della difesa dell’ambiente ma passa anche al contrattacco: le battaglie legali combattute negli ultimi anni le danno ragione e, sentenza dopo sentenza, l’attivista riesce a riconquistare nuovi spazi di libertà. Il progetto di espansione mineraria è, per ora, fermo, mentre la sua lotta continua a ispirare migliaia di attivisti.
Le battaglie di queste donne e di questi uomini non riguardano solo i Paesi in via di sviluppo, ma coinvolgono i cittadini di tutto il mondo: di ingiustizie compiute nel nome del profitto a tutti i costi ne esistono tante anche in Italia. Se pochi hanno l’opportunità di scendere in campo e combattere in prima linea, tutti possono dare il proprio supporto. Il primo passo è vincere l’indifferenza, informarsi e cominciare ad ascoltare le storie di coloro che non hanno voce. Conoscere meglio queste realtà può aiutare a interpretare con un pizzico di consapevolezza in più il proprio ruolo di consumatori. Acquistare prodotti giusti, equi e solidali premiando ad esempio le aziende che si impegnano nella difesa dei diritti umani e nella tutela dell’ambiente significa schierarsi dalla parte di Máxima Acuña, di Nemonte Nenquimo e dei cittadini di Kabwe.
Si tratta di piccoli gesti che, messi insieme, possono fare la differenza, contribuendo a migliorare la vita di migliaia di persone… senza la pretesa di “dominare tutte le maree del mondo”, ma “sradicando il male dai campi che conosciamo”.
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