La pandemia e i ragazzi sempre più “rinchiusi”
Apatici, stanchi, lontani: così li vediamo noi. Sono così? «Più taciturni e meno giocosi: il distanziamento ora è mentale»
Chi lavora al loro fianco, ne parla usando termini come “spenti, sfiduciati, indolenti”. Insomma apatici: sarebbero gli adolescenti di oggi, a cui i vari lockdown non hanno certo agevolato una crescita più socievole e matura. Ma è stata appunto colpa della pandemia? O questa ha solo accentuato una situazione ben presente pure prima? Quasi sicuramente la risposta giusta è la seconda: dalle medie in poi, i ragazzi si rinchiudono nella loro bolla virtuale, nello smartphone che sostituisce i contatti fisici, il dialogo, spesso pure lo studio (tanto, c’è tutto lì...). E non trovano all’esterno né sponde né stimoli: dove sono le famiglie, sempre più disintegrate? Dove i genitori, sempre più assenti? Così la scuola a distanza contribuisce a... mantenere le distanze, le pigrizie, le apatie. Ci sarà molto da fare, poi, per svegliare una generazione chiusa in se stessa.
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Se pandemia fa rima con apatia
I giovanissimi di fronte al Covid: sembrano spenti. Lo erano anche prima?
C’è la falsa narrazione che questa pandemia e le chiusure conseguenti abbiano cambiato i nostri ragazzi, soprattutto quelli nell’età più delicata, l’adolescenza. Parlando con chi sta loro affianco ogni giorno, si capisce invece che il Covid ha solo accentuato quello che già prima era chiaro e diffuso: un sentimento di apatia che lascia senza parole. Perché adolescenza e apatia sono concetti che non si sono mai sposati.
Apatia: stato d’indifferenza abituale o prolungata, insensibilità, indolenza nei confronti della realtà esterna e dell’agire pratico (Treccani). «Una definizione perfetta per una realtà che vede certo delle eccezioni, che però confermano quella regola», commenta Annachiara Dama, insegnante di lungo corso di Lettere in una scuola media cittadina. «Vedo i ragazzini di prima arrivare ancora pimpanti e reattivi. A quattordici anni sembrano mosci e disinteressati a tutto. Abbiamo parlato della realtà di tornare all’insegnamento a distanza: pensavo lo temessero, in troppi mi hanno detto: meglio così, non devo neppure vestirmi la mattina…».
Conferma una sua collega, da decenni in prima linea tra Leopardi e Carducci: «La poesia è la cartina di tornasole del cambiamento. Vent’anni fa le rime ancora affascinavano, venivano imparate, scritte sui diari le più suggestive. Oggi provocano solo noia e lo stesso ritornello sulle bocche di tutti: a che servono?».
Certo, i lockdown e i distanziamenti hanno isolato – soprattutto mentalmente – ancora di più giovani che vivono dentro uno smartphone. Più di tanto non hanno avvertito quel dolore quasi fisico che l’asocialità crea nei più adulti.
Quindi apatici: ma lo erano o lo sono diventati?
Lo erano già. Mancano stimoli positivi, mancano spesso i genitori (quand’anche siano ancora una coppia), mancano gli esempi che non siano influencer con i luccichini agli occhi per l’ultimo modello Adidas o per il tatuaggio sulla punta del naso. Manca l’attività sportiva che ti inquadra, manca l’aggregazione di queste pecorelle smarrite sempre connesse con tutti, sempre isolate da tutti.
Quando l’aggregazione c’è – anche grazie al lavoro fatto dal mondo cattolico – si scopre che la vita ha un sapore diverso dal grigio noia. Che non è tutto breve come un whatsapp, effimero come una storia postata su Instagram, luccicante come una foto ritoccata e messa nella vetrina virtuale per far vedere quanto siamo belli, alla moda, “senza difetti”. Infatti alla prima critica crollano, alla prima difficoltà tirano i remi in barca, alla prima crisi non trovano salvagenti.
La pandemia? Sta fuori dalla bolla in cui un’intera generazione vive. La nostra apprensione davanti ai notiziari non è la loro; i nostri ragionamenti sono appunto ragionamenti, noiosi; la voglia di affrontarli è spesso pari a zero. Lontani i tempi in cui a quindici anni si passavano le ore assieme all’amico/a del cuore a parlare di tutto e di niente, sigarette emancipatrici e così tanti sogni che non si sapeva nemmeno metterli in ordine.
Il tempo è diventato piatto, questa pandemia non modifica questa situazione del vivere.
Colpa loro? No. Noi genitori siamo alla fine molto diversi? No. Si può fare qualcosa per cambiare l’andazzo? Sì. Anche se la strada sembra una scalata del sesto grado: se nemmeno la tragedia più grande degli ultimi 75 anni ti sfiora, non saranno né le opinioni più illustri né gli articoli come questo ad entrare in quella bolla e a farla esplodere. Gliel’abbiamo creata noi “per farli stare più buoni”. Sembrano in letargo: svegliamoli.
Nicola Salvagnin
«Più taciturni e meno giocosi: il distanziamento ora è mentale»
L’esperienza di don Federico Zardini a Borgo Trento
«Prima del Covid-19 i ragazzi stavano fuori nel cortile a giocare, erano sempre esplosivi e bisognava quasi implorarli perché entrassero al catechismo o agli incontri per adolescenti; adesso li vedo molto misurati: parlano sì, ma manca un po’ la freschezza della spontaneità che ci si aspetterebbe a quell’età». La pandemia è stata come uno spartiacque, che ha segnato un “prima” e un “dopo” nel comportamento delle giovani generazioni, osserva don Federico Zardini, da dieci anni parroco di San Francesco all’Arsenale, in Borgo Trento.
«Sono molto cambiati: appaiono più taciturni, molto seri e meno inclini al gioco di un tempo – aggiunge –. Quando arrivano negli spazi parrocchiali stanno lì in attesa, mani in tasca e poche battute». Distanziamento fisico, mascherine sul volto e igienizzazioni ripetute delle mani ormai sono entrate nella loro quotidianità; la socialità perduta, però, si fatica a riconquistare. «Probabilmente incide molto la mancanza della dimensione aggregativa – ipotizza don Federico –. Noi qui eravamo abituati a iniziare l’incontro degli adolescenti con una cena condivisa e c’era lo spazio per giocare insieme a calcetto o a ping pong. Un “contorno” che per i giovanissimi era importante e ora è venuto a mancare, a causa delle restrizioni del momento».
Dopo l’accoglienza iniziale, ogni venerdì sera si tiene l’incontro del gruppo adolescenti, che conta una ventina di partecipanti, tutti frequentanti le superiori, seguiti dai loro animatori. Il martedì alle 16.30, invece, si ritrovano con le catechiste una trentina di studenti delle medie.
«Un leggero abbassamento di partecipazione c’è stato, ma in questa fase ci vuole il massimo rispetto per chi ha paura, inclusi i genitori che condizionano la frequenza dei figli al catechismo – constata il sacerdote –. Tutto sommato, però, siamo riusciti a mettere in piedi dei bei gruppi: siamo fortunati perché abbiamo spazi molto ampi e un bell’oratorio, che possiamo sfruttare al posto delle piccole aule. Gli incontri prevedono attività di gruppo: noi facciamo una proposta di fede, ma spesso emerge il vissuto concreto dei ragazzi, che si confrontano con la realtà».
Pur con limiti e precauzioni, il ritorno alla “normalità” qui è ripreso dopo la festa liturgica di san Francesco. «Prima gli animatori avevano provato a contattare su Zoom i ragazzi con delle proposte di gioco, ma la risposta non era stata grande, probabilmente a causa dei numerosi incontri sulle piattaforme digitali organizzati durante il lockdown – conclude don Federico –. Ora cerchiamo di favorire il più possibile gli appuntamenti in presenza, per dare qualche sprazzo di serenità alle nuove generazioni della nostra comunità, che ha un’età media abbastanza alta. Come tutti navighiamo a vista, ma cerchiamo di trasmettere un po’ di serenità ai ragazzi, consentendo loro di stare qualche ora con i propri pari».
Adriana Vallisari
«Qui San Massimo, dove la socialità è ancora realtà»
Don Ambrogio Mazzai: fondamentale la frequentazione
Giovanissimi “spenti”? Non così tanto, almeno all’ombra del campanile di San Massimo. «Nonostante il periodo particolare, i nostri pre-adolescenti e adolescenti sembrano ancora vivaci: con la didattica sempre più a distanza, gli allenamenti sportivi saltati e i bar chiusi alle 18, gli incontri di gruppo in parrocchia sono una delle poche attività rimaste e quindi per ora restano ben frequentati», dice don Ambrogio Mazzai, 29 anni, dallo scorso anno vicario parrocchiale nella popolosa parrocchia cittadina.
Giudica «buona» la partecipazione, con qualche distinguo, frutto dei tempi. «Anche da noi c’è stato un leggero calo del 10-15%, perché alcuni genitori hanno paura che la frequentazione di incontri extrascolastici da parte dei figli li metta a rischio, con tutte le conseguenze sul piano lavorativo, oltre che sanitario», spiega don Ambrogio.
Dalla terza media alla quinta superiore, comunque, la schiera di partecipanti alle attività parrocchiali si attesta fra le 80 e 100 persone. «Per fortuna abbiamo diverse sale a disposizione e, mentre in passato ci trovavamo solo il lunedì sera, ora abbiamo deciso di spalmare il gruppo adolescenti su tre giorni, il lunedì, il martedì e il venerdì, dalle 21 alle 22», prosegue il curato. A parte le nuove regole, non ci sono rivoluzioni sulla modalità di conduzione degli incontri. «Stiamo seduti, come sempre, e ci confrontiamo con testimonianze e dialogo – precisa don Ambrogio –. Vedersi faccia a faccia, anche se ci sono le mascherine sul volto, è un fattore molto significativo per loro: alcuni sono un po’ in ansia in questo periodo, altri sono sereni e tranquilli, qualcuno anche troppo...».
Per la prima e la seconda media, invece, così come per le elementari, gli incontri hanno una cadenza quindicinale, pomeridiana. Dopo l’estate, che qui ha visto realizzato anche un Grest, a luglio, la macchina organizzativa è ripartita. Pure con i “recuperi” dei sacramenti. Il 17-18 ottobre, ad esempio, hanno fatto la Cresima 65 ragazzi frequentanti ora la terza media. «Li avevamo già preparati in precedenza, ma a settembre abbiamo organizzato un paio di incontri per rinfrescare quanto appreso – spiega il vicario –. Il sacramento è stato impartito dal parroco, con celebrazioni suddivise: una semplificazione che ha fatto riscoprire l’essenzialità di questo passaggio importante».
Ora lo sguardo corre in avanti: le idee sono molte, bisognerà vedere come evolverà l’emergenza sanitaria. «Ci piacerebbe fare l’esperienza di un piccolo campo-scuola invernale, che ora come ora però appare assai improbabile – chiosa don Ambrogio –. Sarebbe un modo per rafforzare la relazione fra ragazzi e animatori, utile a superare questa fase di incertezza: sentirsi accompagnati, percepire che vicino ci sono delle persone affidabili e con cui si sono vissute belle esperienze fa davvero la differenza». [A. Val.]
«I nostri figli troppo nascosti per superare la bufera»
Lo psicologo: perdono il contatto con la vita
Diversi e uguali. Sono i giovani al tempo della pandemia, dopo che lo tsunami del Covid-19 continua a scombussolare (anche) le loro esistenze. Con conseguenze su vissuto emotivo e socialità delle giovani generazioni che hanno chiavi di lettura, appunto, agli antipodi.
Dove lo slogan “Andrà tutto bene” si è in qualche modo concretizzato, sono emerse le potenzialità della meglio gioventù. E, non dimentichiamocelo, degli adulti di domani. Ma l’adolescenza rimane una parentesi di vita non sempre facile da affrontare, dove forse i giovani finiscono per nascondersi e nascondere troppo bene i pensieri che li affliggono.
«L’esperienza del lockdown ha permesso di far emergere quell’incredibile capacità tecnica che la maggior parte dei giovani ha acquisito con le nuove tecnologie, essendo questi cresciuti pienamente nell’era digitale. Di contribuire in famiglia, aiutando i genitori. Di rispondere alle richieste scolastiche», spiega Michele Orlando, consigliere e coordinatore della Commissione tutela dell’Ordine delle psicologhe e degli psicologi del Veneto. «Nonostante ciò – prosegue lo psicologo – la primavera vissuta ha portato importanti effetti a livello emotivo e relazionale. L’adolescente ha bisogno di socialità e relazione dal vivo. Il blocco dovuto alla quarantena ha reso complessa parte di quell’esperienza necessaria alla maturazione di ragazze e ragazzi».
– C’è chi li ha definiti “fantasmi” del Covid, perché tra le categorie trascurate nell’emergenza. È così?
«Definizione corretta, con un appunto: fantasmi non solo per necessità, ma per capacità. Sono intrinsecamente molto bravi a nascondersi agli adulti: fa parte di quella fase di vita tra sperimentazioni, allontanamenti e ritorni. Se non fossero stati così bravi ad “accettare” quella condizione d’invisibilità, probabilmente avremmo effetti ancor più negativi. Questo non deve portare la società a proseguire con la strada presa la scorsa primavera. Frustrazione e difficoltà di questo momento storico non possono continuare ad andare a svantaggio dei più giovani, che necessitano adesso di cura e attenzione».
– C’è chi li ha criticati per l’eccessiva leggerezza nell’affrontare per esempio le regole di distanziamento fisico, uso delle mascherine. Cosa ne pensa?
«Adolescenti e preadolescenti hanno dimostrato un’attenzione spesso maggiore degli adulti in contesti di tutela e regole come le scuole. Molti insegnanti hanno sottolineato come fossero davvero bravi nel rispettare le disposizioni. Qui il senso della misura: per quanto visti come “ribelli”, mostrano capacità adattiva e d’integrazione maggiore rispetto ad alcuni adulti. Ci saranno occasioni e momenti ove queste regole non vengono rispettate, ma se osserviamo i modelli che i giovani possono vedere attraverso media e social network, fatti di persone che negano la mascherina o hanno comportamenti non adeguati, non credo si possa attribuire la colpa unicamente ai ragazzi. I giovani vanno ispirati e accompagnati, non solo additati».
– A maggior ragione perché l’adolescenza è una fase evolutiva delicata, segnata da cambiamenti fisici e psicologici. Gli adulti hanno fatto abbastanza?
«Se per adulti intendiamo la società, non riesco a dare una risposta totalmente positiva. La situazione è estremamente complessa. Ognuno dovrebbe svolgere al meglio il proprio ruolo per arrivare a un risultato finale positivo. Per i ragazzi potevamo fare molto di più. Lo meritano a prescindere e la capacità adattativa messa in atto in questi mesi ha dimostrato quanto dovremmo dare più attenzione ai loro bisogni. Parte del nostro compito dovrebbe essere non scaricare sulle giovani generazioni le responsabilità di quanto sta avvenendo. Questa condizione può portare in maniera quasi diretta allo sviluppo di un senso di colpa nei ragazzi per la situazione in cui siamo costretti a vivere».
– Ci sono segnali ai quali in famiglia è opportuno prestare attenzione: cambiamento di abitudini nel sonno o nell’alimentazione, rabbia, isolamento, essere meno propositivi e poco stimolati?
«Questi possono essere segnali importanti. Considererei poi condizioni di cambiamento fisico, come l’eccessiva perdita o l’aumento di peso. Purtroppo la condizione d’inattività, l’eccessiva reclusione e l’impossibilità di vivere quel sano, seppur parziale, “distacco” dal focolaio domestico rende più difficile la sperimentazione necessaria di quell’età. Tutto ciò può portare a una chiusura emotiva e relazionale, con conseguente sviluppo di difficoltà a volte severe».
– Didattica a distanza, vita compressa tra le pareti di casa, gomito a gomito coi genitori. Binomio che, talvolta, non ha aiutato i legami familiari. Anzi. Nella convivenza forzata sono nate talora criticità. Quale consiglio dare ai genitori per far sì che la vicinanza non si traduca in conflitto?
«Non è semplice. L’obbligo alla domiciliarità comporta una privazione di spazio per entrambe le parti: per l’adolescente come campo esperienziale in cui allontanarsi dal genitore, per l’adulto come luogo di comprensione del figlio o di ri-equilibrio personale per comprendere il cambiamento che sta avvenendo nel ragazzo. La contrattazione può essere un utile strumento: apre a dialogo, confronto, crescita per entrambi. I genitori non sono esseri finiti che non possono più evolvere. Ogni figlio può portare a una trasformazione dell’adulto, ma questo avviene nella relazione. Il mio consiglio? Parlare, contrattare, co-costruire questa nuova esperienza nel rispetto reciproco. Sarà un modo per superare limiti e difficoltà imposte esternamente e raggiungere una maggior maturazione di entrambi».
– La primavera della pandemia ha lasciato dei segni. E non è finita...
«La stragrande maggioranza delle persone ha risposto in maniera disciplinata e attenta: tutti hanno compreso la difficoltà e fatto fronte insieme. Ora c’è una sensazione di contrarietà maggiore che potrebbe esacerbare alcune situazioni, giungendo a complicazioni maggiori. Servono attenzione, sensibilità e flessibilità nei confronti di tutti. Soprattutto di chi è maggiormente sensibile e fragile».
– Questo momento di sacrificio può essere considerato un allenamento alla vita con cui le nuove generazioni possono acquisire strumenti per riorganizzare il futuro?
«È stato un colpo molto duro, che non verrà dimenticato da nessuno. Per le nuove generazioni potrà essere uno strumento utile se vi sarà una corretta rielaborazione di quanto accaduto (o sta accadendo), traendone tutti gli insegnamenti possibili. La disponibilità del Governo per il potenziamento degli interventi psicologici nell’ambito scolastico è positiva, ma dovrebbe essere aumentata. Preadolescenti e adolescenti di oggi sono la società di domani: se investiamo sulle loro capacità e diamo loro la possibilità di comprendere, assorbire e re-interpretare l’accaduto, potremo avere dei punti di riferimento più capaci e in grado di fronteggiare meglio le avversità. Potranno avere nuovi strumenti sì, ma sta a noi dare loro la possibilità di farli propri».
Marta Bicego