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«I social aiutano a evangelizzare ma Gesù conta più di un algoritmo»

di ADRIANA VALLISARI
Don Ambrogio Mazzai, prete scrittore ma anche assai attivo sui nuovi media

 

«I social aiutano a evangelizzare ma Gesù conta più di un algoritmo»

di ADRIANA VALLISARI

Ha sempre partecipato ai Meeting, prima come adolescente, poi come don; domenica scorsa ha accompagnato una decina di “suoi” ragazzi di Porto San Pancrazio, dov’è collaboratore parrocchiale. Don Ambrogio Mazzai, 32 anni, prete dal 2016, è un giovane sacerdote veronese conosciuto molto fuori dai confini della sua parrocchia e della diocesi; e infatti al palazzetto dello sport più di un ragazzo l’ha fermato per chiedergli di fare una foto insieme. Da un paio d’anni la sua presenza attiva sui social, Instagram e TikTok in particolare, gli ha dato una visibilità inevitabile, che però sa maneggiare con cura. Senza, cioè, perdere mai di vista perché utilizza questi strumenti: veicolare il messaggio evangelico.
– Don Ambrogio, l’hanno definita come il “don TikTok”: questa definizione le sta stretta?
«È una semplificazione giornalistica che non mi entusiasma. Così come non mi piace quando mi chiedono quante persone mi seguono sui social network. Non lo so e non mi interessa: non è quel numero che definisce la persona che sono. L’ha ricordato anche il Vescovo nell’omelia di domenica ai ragazzi: non ha senso cercare questo tipo di visibilità e diventare schiavi di un conteggio, il nostro valore non può essere definito da un algoritmo».
– Stando sui social si può comunicare in modo veloce e diretto, ma ci si espone pure a giudizi e critiche. Come si fa a viverli bene?
«I social vanno abitati in modo consapevole, anche dai giovani. Per come sono costruiti, danno spazio alle notizie e ai contenuti che fanno discutere e dividono, piuttosto che alle buone notizie, e rischiano di trasformarsi in arene di leoni o di renderci schiavi del giudizio dei più. Vanno capiti a fondo e non usati alla leggera: occorre avere una formazione per usarli bene».
– Parla di Dio in un ambiente, come quello digitale, dove non tutti la pensano come lei...
«Certo, perché mi fido del Signore. So di fare una scelta in controtendenza, ma anche essere cristiano o prete comporta andare contro a come la pensa il mondo. Quando san Paolo parlò agli ateniesi all’Aeropago, fu ascoltato con interesse, ma alla fine fu deriso da molti; tra quelli che non se ne andarono, però, rimase un piccolo gruppo di persone che si convertì. Ecco, più umilmente, se stando sui social avessi aiutato anche una sola persona nel suo cammino di fede, sarei già contento».
– Lì ogni giorno le rivolgono tantissime domande, come ha raccontato nel suo primo libro, Upsy daisy (Tau Editrice). Chi le scrive?
«Interagisco con persone da tutta Italia, di qualsiasi età e non solo giovani. Quando pubblico un video ci metto tre minuti, quello che mi impegna di più è coltivare il rapporto di dialogo e di scambio con le persone. Faccio quest’attività in una parte residuale della mia giornata, occupando qualche tempo morto tra un appuntamento e l’altro. Alla buona volontà ho aggiunto anche lo studio della Comunicazione, su suggerimento dell’allora vescovo Giuseppe Zenti; ora sono iscritto al terzo anno dello Iusve (l’università dei salesiani, ndr).
– Si può evangelizzare con i social?
«Si può dare qualche stimolo e qualche spunto per l’evangelizzazione, che poi però deve trovare altre vie. I social hanno abbattuto le barriere e spingono gli individui a parlarti come se ti conoscessero, anche se non è così. Io li ascolto sempre e cerco di indirizzarli alla propria parrocchia oppure li invito a rompere il ghiaccio col parroco, quando mi dicono che hanno paura di disturbarlo. Sono convinto che serva sempre una comunità fisica di riferimento. E il Meeting di domenica scorsa ne era l’esempio».
– Ovvero?
«I ragazzi hanno usato pochissimo il telefono, erano partecipi di quello che vedevano, non erano distratti da altre cose. Non è stato necessario rilanciare e condividere quel momento sui social, l’hanno vissuto nel “qui e ora”, sentendosi parte di qualcosa. Hanno apprezzato le testimonianze dei loro coetanei, come quelle degli adolescenti di Legnago, e ne sono rimasti colpiti. Stando insieme al palazzetto, hanno conosciuto tanti altri adolescenti che stanno vivendo lo stesso percorso. Si sono fatti sentire, come ha suggerito loro il Papa, nel messaggio fatto arrivare al Vescovo. Per tutti il Meeting è stato un’iniezione di speranza: passata l’estate, ci aiuta a ricominciare alla grande la vita ordinaria».
– Il Meeting, come pure la Gmg, ci ricordano che ai giovani spesso basta dare degli spazi per farli sentire “guardati”. Riconoscersi negli occhi dell’altro è il tema al centro del suo secondo libro, un romanzo che ha appena dato alle stampe e che s’intitola Poco più di un’estate (Piemme). Come mai l’ha scritto?
«Era un’idea che avevo in testa da tempo. Spesso le persone mi chiedono di raccontare la mia esperienza di vita; io volevo fare di più, raccontando una storia che parlasse alla vita delle persone, aiutandole a crescere nella fede, come faceva Gesù con le parabole. Ne è nato questo romanzo, che prende spunto da pezzi di vita vissuta e parla a tutti, giovani e adulti».
– Che sogni ha nel cassetto?
«Poter continuare a servire la Chiesa nel modo migliore possibile. Non mi interessa il carrierismo, bensì servire con gioia. Pubblico sui social sì, ma questa è un’attività secondaria: prima di tutto sono un sacerdote. Ho maturato la vocazione prima della comparsa dei social e mai avrei immaginato che mi avrebbero portato ad ampliare così tanto la rete di persone che conosco. Se un domani i social dovessero finire, il mio ministero invece continuerà. Sono fiducioso e aperto a quello che il Signore mi dirà. E lui conta molto di più di un algoritmo...». 

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