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«Io nelle carceri del Congo: inferno pieno di umanità»

di MARTA BICEGO

Suor Anna Brunelli da Lugo e il suo servizio tra gli ultimi dell’Africa

«Io nelle carceri del Congo: inferno pieno di umanità»

di MARTA BICEGO

«Là mi sento libera». Suor Anna Brunelli associa la parola libertà alla sua presenza, da dodici anni, nel carcere di Makala, il più grande della Repubblica democratica del Congo, nella capitale Kinshasa. Un luogo in cui manca l’aria. Scarseggiano il cibo e l’acqua da bere o per lavarsi. Manca lo spazio. Le malattie si “condividono” e mietono vittime.

Eppure in quei padiglioni nei quali i detenuti sono costretti a sopravvivere, e talvolta finiscono per morire stipati l’uno accanto all’altro, non si suicida nessuno: lottare per la sopravvivenza fa parte della quotidianità, uscire vivi è davvero una grazia. Perché non manca la speranza di tornare liberi: a mantenerla viva contribuisce in parte la fede che la comunità cristiana cattolica coltiva nella preghiera, nell’Eucarestia, nella Parola di Dio, in gesti di vicinanza. Anche adesso che la missionaria comboniana è per un breve periodo a casa della sorella, a Lugo di Grezzana, mantiene un legame con l’Africa: risponde a messaggi sullo smartphone, legge notizie, scrive e-mail. Non vede l’ora di rientrare.

Accenna un sorriso suor Anna, parlando delle “sue prigioni”: sincero indizio dell’amore che ha per una missione che l’ha portata lontano a prendersi cura degli ultimi tra gli ultimi. «Ho ricevuto una buona educazione e i miei genitori mi hanno insegnato i valori della solidarietà, dell’onestà, dell’attenzione al povero e verso chi soffre», spiega la settantasettenne cresciuta in una famiglia piuttosto numerosa. Mentre parla, le sfuggono diverse parole in francese, lingua che le è ormai familiare.

Dopo aver preso i voti a Verona nel 1969 ed essersi formata come infermiera per il servizio ai lebbrosi con specializzazione in Medicina tropicale, quasi mezzo secolo fa è partita per lo Zaire, oggi Repubblica democratica del Congo. «La prima missione che il Signore mi ha dato e – dice – dove ho iniziato ad amare il popolo africano». La religiosa della Valpantena ha prestato servizio sanitario in un lebbrosario nella foresta, ha vissuto con i Pigmei. Esperienze indimenticabili e al contempo difficili, quando sul suo cammino ha incontrato guerriglie e soldati armati. Dal 1997 al 2006 è stata inviata in Togo: lì ha capito che la sua vocazione era curare i detenuti, perciò ha iniziato a frequentare la prigione di Lomé e i suoi 1.500 prigionieri.

È entrata dove mai nessuna suora con la pelle bianca aveva messo piede. «Dentro mi sentivo reclusa quando sentivo porte e catenacci chiudersi alle mie spalle», ricorda. Tra le difficoltà, alcune conquiste: trovare uno spazio per celebrare la Messa e pregare, recapitare le lettere ai familiari. Un servizio che ha preparato il terreno alla missione successiva: quella che, dopo una breve pausa in Italia, l’ha riportata in Congo, dove ha proposto alla Madre provinciale di frequentare il carcere di Makala. «Costruito negli anni Cinquanta per una capienza di 1.500 persone, attualmente ne ospita circa 16mila in condizioni inumane», descrive. In undici padiglioni (nove sono maschili) convivono a migliaia adulti, minori, donne, neonati, bambini. «Sono obbligati a stare accovacciati, a dorso nudo; occupano i corridoi, i bagni. Ogni giorno trovi un paio di morti...», descrive. Contro tanta sofferenza, la religiosa riesce a essere sorella, mamma, amica, madrina nei battesimi. «Non è facile», ammette.

Ma non è tipo da lasciarsi scoraggiare e ha lottato: per dare alle donne una stanza per le visite; perché alcuni bimbi crescessero lontano dalla prigione, assicurando loro un futuro migliore; per far valere la giustizia. Alcuni detenuti sono davvero autori di reato (il principale tra i maschi è la violenza sessuale, tra le femmine il traffico di minori); altri sono in attesa di giudizio, se non addirittura innocenti. Capita che vada a fuoco un archivio o che si perda un dossier giudiziario perché molti vengano dimenticati in quella bolgia in cui l’umanità scarseggia.

Una delle attività portate avanti dalla Chiesa cattolica – oltre a organizzare corsi di alfabetizzazione, inglese e informatica – è supportare chi è stato incarcerato ingiustamente, ha un caso complicato o non può uscire perché non ha i soldi per pagare le spese giudiziarie. Tramite la commissione “Giustizia e pace”, il collaboratore Jean Noel si reca nei vari uffici di polizia o nei tribunali cittadini per cercare la documentazione utile a far valere i diritti di queste persone. Ogni mese, decine di innocenti ritrovano la libertà grazie a quest’opera e, di recente, il nuovo ministro della Giustizia ha dichiarato di volersi impegnare in questo senso per contrastare il sovraffollamento. Inoltre, un progetto della Chiesa cattolica sostenuto dalla Conferenza episcopale italiana (Cei) ha permesso di dotare i padiglioni del carcere di grandi climatizzatori. Sono scintille di una speranza da continuare ad alimentare. Come? «Aiutando a pregare e a mantenere vivo il senso di Dio, a rivedere la propria vita e capire cosa li ha portati lì, a riconciliarsi con il Signore e il prossimo – risponde –. Dare speranza è il nostro dovere, soprattutto con le mamme». Specie dove la dignità è calpestata e manca il rispetto, senza perdere di vista la propria missione. In carcere suor Anna confessa di aver ricevuto tanti esempi: ha imparato cosa è la pazienza, ha scoperto il significato di resilienza, ha raccolto gratitudine. «Siamo tutti peccatori e abbiamo delle mancanze; ma – conclude – sono felice di camminare assieme a queste persone verso la salvezza». 

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