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«Io, insegnante volontaria lavoro su lingua e relazioni»

di MARTA BICEGO
Teresa e la sua esperienza di scuola e vita dentro il Cestim 

«Io, insegnante volontaria lavoro su lingua e relazioni»

di MARTA BICEGO
«È più quello che ho ricevuto di quanto ho dato». S’illuminano gli occhi a Teresa De Longhi quando parla dei suoi dieci anni trascorsi come volontaria del Cestim Verona. Una «sfida» che continua. Vissuta tra libri, quaderni e penne. Con il profumo di scuola a scandire giornate sempre differenti. E non facili nemmeno per lei che si è occupata di adozioni in un consultorio familiare, di disabilità anche come coordinatrice dei Centri educativi occupazionali diurni (Ceod) e che ha collaborato con l’ateneo scaligero come cultrice della materia nell’ambito del servizio sociale. Ma le mancava, appunto, il profumo di scuola.
A descrivere il suo impegno sono le esperienze con gli alunni che ha affiancato nel conquistare una parola dopo l’altra di una lingua che, per loro, non era familiare. A partire da R., di 6 anni, proveniente dallo Sri Lanka. Proferiva appena qualche termine in inglese e, come lui, la mamma. Tanto che è stato necessario far intervenire un mediatore culturale per riuscire a conoscere qualche dettaglio in più del loro passato. «Obiettivo del primo anno – spiega – è stato comprendere semplici vocaboli della quotidianità, per poter passare al contenuto globale di storie e racconti, con il supporto di immagini». Gran parte delle lezioni si sono svolte camminando lungo i corridoi: contando le porte; imparando i nomi di elementi come le finestre, il campanile che spuntava oltre il vetro e le campane che segnavano le ore, i cappotti appesi, l’astuccio con il suo contenuto. Stimoli visivi e schede da colorare hanno consentito di apprendere, ad esempio, le parti del corpo umano o le azioni che può compiere. Rispettando i tempi giusti ma stimolando l’apprendimento con materiali didattici quali dizionari illustrati, dadi, carte per esercitare la memoria. «Imparare nuove parole era una conquista che condivideva, con orgoglio, con i compagni di classe», ricorda, ribadendo l’importanza di offrire un supporto personalizzato. Piccoli passi, nella direzione dell’inclusione. Così, dalle prime scarne parole R. è passato allo studio della storia e della geografia: «Rispondere in classe alle domande dell’insegnante durante le interrogazioni era per lui era un momento di gioia».
Diverso è stato con I., un bimbo ucraino arrivato in riva all’Adige assieme alla madre per sfuggire dal conflitto, mentre il papà era rimasto a combattere al fronte. «Non conosceva nessuna parola di italiano e si esprimeva con i disegni. Usava soltanto due colori, il nero e il rosso, con i quali rappresentava palazzi distrutti, aerei che lanciavano bombe, carri armati e bunker». La prima preoccupazione è stata cercare di restituire serenità al piccolo, per passare poi a semplici vocaboli e a frasi minime che gli permettevano di interagire con i compagni di classe. Dopo un anno, precisa la volontaria, «ha iniziato a utilizzare il colore verde e a fare qualche sorriso». Finché con la madre si è trasferito in un’altra città, ma «ogni tanto mi manda ancora dei messaggi per dirmi che sta bene ed è contento della sua nuova scuola». Percorsi impossibili, osserva De Longhi, senza la collaborazione dell’insegnante con la quale si trova il percorso adeguato in classe. Di studente in studente, di risultato in risultato: piccole grandi conquiste per tutti. «Ritengo che questa esperienza sia stata e sia tuttora molto importante – conclude –. Quando questi bambini avranno la conoscenza delle parole, potremmo dire che sono veramente cittadini a pieno titolo e che noi siamo, con loro, cittadini del mondo». 

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