«Fondamentale insegnare nelle aule. Casomai siano le ultime a chiudere»
Secondo lo psicoterapeuta Alberto Pellai la classe è molto più di un luogo di formazione
“La scuola non è il virus”: così recita uno degli striscioni affissi davanti alla sede della Regione Campania, dove continua la protesta di studenti, genitori e insegnanti contro l’ordinanza del presidente regionale Vincenzo De Luca, che ha disposto lo stop alle lezioni in presenza fino al 30 ottobre, ad eccezione delle materne. S’invoca il diritto allo studio di bambini e ragazzi, già penalizzati nella prima ondata della pandemia, con la chiusura delle scuole e la serrata generale.
«Evitiamo di renderli invisibili un’altra volta», dice Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, papà di quattro figli, in libreria con la sua ultima pubblicazione, Mentre la tempesta colpiva forte. Quello che noi genitori abbiamo imparato in tempo di emergenza (De Agostini).
– Lei è tra quelli che non si stancano di sottolineare l’importanza di tenere aperti gli istituti. Come mai è importante continuare a fare scuola in presenza?
«Perché i benefici sono infintamente superiori, l’ha detto pure l’Organizzazione mondiale della sanità. C’è un guadagno di salute per i ragazzi nel fare scuola in presenza, anziché a distanza. Stare in un luogo fisico con i propri pari consente loro di coltivare le relazioni, di attivare le dinamiche di classe, di avere rapporti diretti con i docenti... Tutti aspetti che in età evolutiva potenziano abilità differenti rispetto alla didattica a distanza, che resta uno strumento emergenziale».
– Nonostante il numero di contagi in salita in Italia, la trasmissione intra-scolastica del nuovo Coronavirus per ora è una dinamica molto limitata, non raggiunge nemmeno l’1%.
«Vuol dire che la scuola resta un luogo dov’è più facile sostenere il mantenimento del sistema di protezione. Di per sé è un ambiente che ha un rischio calcolato, mentre ci sono condizioni correlate all’andare a scuola che hanno un rischio più elevato. Il vero problema è quello del sistema dei trasporti non attrezzato e carente, guardiamo alla giusta causa».
– Idee per aggirare l’ostacolo?
«Se il sistema pubblico non è in grado di mantenere il servizio, si potrebbe organizzare un “sistema famiglia”: con due-tre nuclei familiari che, rispettando le regole, portano a scuola a turno i figli. Oppure si potrebbe usare parte del denaro destinato alla gestione dell’emergenza per pagare i trasporti in privato, in sicurezza. La chiave, in ogni caso, è la collaborazione, attenendosi ai dati oggettivi».
– Che effetti psicologici avrebbe un’altra chiusura delle scuole su bambini e ragazzi?
«Sarebbe estremamente impattante. Però attenzione: non si potrebbe chiudere senza un lockdown generalizzato: se restassero aperte pizzerie e ristoranti e la scuola no, sarebbe un paradosso. Passerebbe il messaggio che conta solo ciò che è monetizzabile. Invece mai come in quest’anno complesso dovremmo aver compreso che la scuola è molto più di un luogo di formazione. Certo, se dovremo metterci in salvezza dal dilagare della pandemia faremo tutti di più, ma al momento non siamo in questa condizione».
– Gli studenti come si sono adattati ad entrare in aula con la paura del virus?
«Hanno capito subito che stare alle regole anti-contagio è l’unico modo per tornare ad avere una vita sociale. Con tanta fatica sulle spalle, ma ce la stanno facendo».
– Come usciremo da tutto questo?
«Imparando a convivere con questa minaccia, non tenendola fuori dalle nostre case. Gli adulti devono essere propositori di un sano equilibrio: non rivogliamo un lockdown, però comprendiamo che c’è una corresponsabilità condivisa per vivere in sicurezza. Facciamo tutti la nostra parte, perché col virus dovremo convivere a lungo, almeno finché non ci sarà un vaccino per tutti».
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