È andato tutto bene? Le nostre vite nel "dopo"
Finiscono le limitazioni: il panorama sociale post-Covid. Termina la fase 1 della pandemia, con conseguenze enormi per tutti
A metà di questo mese sono sostanzialmente cessate in Veneto le limitazioni imposte per il Coronavirus: si chiude una parentesi, anche se rimangono aperte quelle più grandi relative alla situazione nazionale e mondiale. È l’occasione per fare un po’ il punto di un periodo incredibile che ha rivoluzionato le nostre esistenze: ha stravolto il lavoro, la scuola, i rapporti sociali, molte nostre abitudini (dal viaggiare all’assistere a uno spettacolo) fino all’impossibilità di partecipare a una Messa. Per la terza età il ciclone ha avuto conseguenze ben più devastanti, visto il tasso di mortalità per coloro che si ammalavano e avevano superato gli “anta”. Ma pure la politica ora dovrà riparametrarsi per affrontare con competenza e lungimiranza quel che ha tutta l’aria di essere una ricostruzione post-bellica. E il mondo cattolico ne esce frastornato: per una religione che ha nel senso di comunità e dell’abbraccio i segni distintivi, il distanziamento fisico non è certo un toccasana. Sempreché non si riapra un’altra infausta parentesi sanitaria: ne parliamo infine con un immunologo.
Liberàti (forse) dal male: è andato tutto bene?
Termina la fase 1 della pandemia, con conseguenze enormi per tutti
Il 15 giugno, con le ultime restrizioni legislative cessate d’efficacia nel Veneto (rimane qualcosa, ma ormai marginale), si può dire chiusa la parentesi tonda della pandemia di Coronavirus nelle nostre terre. Rimane aperta quella quadra relativa all’intera Italia, e quella grafa che racchiude il mondo.
Insomma si può tirare un bilancio di questo (primo?) periodo di pandemia. Andrà tutto bene, ci dicevamo. Liberateci dal male, continuiamo a dire. In questo secondo caso, la strada è ancora lunga. Ogni giorno si parla di un nuovo farmaco, ogni giorno si prospetta qualche orizzonte di vaccinazione. Ma la realtà parla ancora tutt’oggi di nuovi infettati e di cure “spannometriche” per restituire loro la salute.
È sicuramente andato tutto bene per chi non si è ammalato, ma lo sconquasso è stato socialmente e individualmente devastante. Sono cambiate più cose in tre mesi… Si pensi alla scuola, al nostro lavoro e al nostro lavorare; si pensi al distanziamento sociale e a tutto ciò che comporta per le nostre vite: dalle strette di mano alla frequentazione di cinema o treni, dal viaggiare ovunque fino alla difficoltà – per settimane impossibilità – di andare in chiesa e partecipare a una Messa. Nemmeno in guerra, nemmeno sotto le bombe.
Ora occorre ripartire, ci stiamo indebitando per farlo, non tutti ce la faranno perché le condizioni attuali sono oggettivamente difficili. Oggi chiude il negozietto o non fattura la partita Iva, domani pure il medico o il poliziotto potrebbero avere difficoltà a vedersi pagati gli stipendi. Se arriva la tempesta non si salva nessuno.
Molto, ora, è nelle mani nostre e dei nostri governanti. Cercheranno di distrarsi con “fondamentali” leggi su qualche diritto finora negato (questa volta non l’eutanasia, c’è un limite a tutto), ma sarà comunque necessario che si concentrino per guardare all’oggi con un occhio, al domani con l’altro. Il compito è enorme, per loro come per i loro colleghi nel resto del mondo. Non li invidiamo, speriamo siano all’altezza. Nel dubbio – più o meno diffuso – che non lo siano, prepariamoci anche a creare nuove classi dirigenti di qualità.
Post scriptum: tutte parole che esprimono la speranza che non esista una fase 2 della pandemia. O comunque non tremenda come la prima. Non è stata “una semplice influenza”.
Nicola Salvagnin
«Il peggio è probabilmente passato ma prevedere il futuro è da chiromanti»
L’infettivologo: stiamo conoscendo il Covid, l’esperienza tornerà utile
Chiedere a un esperto se il prossimo autunno dovremo fare i conti con un’altra epidemia di Covid-19 è come chiedere, adesso, a un meteorologo che tempo farà il giorno di Ferragosto. Difficile cimentarsi in previsioni sulle medie distanze, ancora di più è complicato riuscire ad azzeccarle. Una delle poche certezze, come il rigore della scienza vuole, al momento è rappresentata dai numeri: dai dati dei contagi a quelli dei pazienti guariti e dimessi, fino a coloro che invece sono stati sopraffatti dalla malattia. Numeri che l’infettivologo Ercole Concia, già professore di Malattie infettive tropicali all’ateneo scaligero con specializzazione in Microbiologia, osserva giorno dopo giorno da quando l’epidemia è entrata a far parte della quotidianità di tutti noi.
«Innanzitutto abbiamo a che fare con una pandemia, perciò non dobbiamo guardare solo quello che accade a casa nostra», esordisce, glissando sull’app Immuni che ha deciso di non installare sul proprio smartphone perché ritenuta non necessaria. L’andamento del contagio in Italia è attualmente sotto controllo: «Negli ultimi quindici giorni sono stati registrati 300-350 casi. Ci fu un momento in cui raggiungemmo quota 5.550 in un’unica giornata. Molti in Lombardia, ma la situazione in Veneto è migliore, con 4-5 casi giornalieri. È positiva a livello italiano, se si esclude qualche focolaio, come quello recente di Roma. Però c’è il mondo», fa notare.
– Il mondo in cui, anzi, la situazione non è affatto da considerare buona...
«Ad oggi abbiamo raggiunto 8 milioni di casi a livello globale, di cui 2 milioni negli Stati Uniti. Nelle ultime settimane è preoccupante la situazione in Sudamerica, con 180mila casi in Brasile. Seguono la Russia, l’India. Dobbiamo ragionare guardando ciò che si verifica fuori dai nostri confini ed è lì che le cose non vanno molto bene. Ovviamente mi preoccupa il ritorno del virus in Cina, a Pechino, con focolai che fanno impressione».
– Sono tanti segnali che attestano la vitalità dell’epidemia?
«Il messaggio che diede il prof. Alberto Zangrillo (direttore dell’unità di Anestesia del San Raffaele di Milano, nda), affermando che il virus era clinicamente morto, è un po’ fuorviante. È vero che in Italia l’impressione è che sia meno aggressivo rispetto a qualche mese fa, come mi è stato confermato da alcuni virologi. In chi ha tampone positivo, ora la carica virale è più bassa rispetto a tempo fa. Il virus circola ancora, ma sembrerebbe meno aggressivo e di conseguenza la possibilità di infettare nuove persone si riduce».
– Insomma, col senno di poi, tutte le decisioni prese (dal lockdown al distanziamento sociale fino all’obbligo delle mascherine) hanno sortito gli effetti sperati?
«Certamente. In particolare il distanziamento sociale e il lavaggio delle mani, non certo l’utilizzo dei guanti. In seguito, alle scelte attuate si sono uniti fattori ambientali, come l’aumento della temperatura per cui queste goccioline si asciugano in fretta e i raggi ultravioletti, che sono un meccanismo antivirale, hanno ridotto il tasso di infezione».
– Lei che, da infettivologo, ha dedicato diverso tempo a studiare le patologie infettive, si sarebbe immaginato uno scenario simile?
«Sì. Non da questo virus, che è stato una sorpresa, ma da un’influenza. Del resto, l’Organizzazione mondiale della Sanità aveva pronto un piano 2010-2030 prevedendo una pandemia da agente patogeno influenzale. Purtroppo i virus sono lì, pronti a cambiare e a passare dagli animali all’uomo, anche per colpa di sbagli di quest’ultimo, se pensiamo ai mercati cinesi. Il problema che vivremo in futuro è legato proprio al salto di specie».
– Non è solo questione di trovare il vaccino, dunque. Ma di avere una mentalità diversa?
«Questa pandemia deve farci riflettere sugli errori commessi. Il Veneto ha operato meglio di altre Regioni perché i medici di base sono ancora radicati sul territorio e speriamo che l’equilibrio raggiunto non solo duri, ma che sia potenziata la medicina territoriale. Diversamente in Lombardia la scelta è stata di ricorrere ai ricoveri per tutti, facendo saltare il sistema ospedaliero. Disastrosa, in generale, è stata la gestione delle case di riposo».
– In risposta a una situazione inedita, alcune decisione prese sono state efficaci. Può essere questo un parametro per regolare le azioni future?
«Per dire se l’epidemia tornerà, bisogna essere degli indovini. Non escluderei, più che una ripresa dell’epidemia, dei focolai il cui ritorno è abbastanza probabile. Sicuramente siamo più capaci di agire rispetto a febbraio, quando per l’esito dei tamponi bisognava attendere una settimana. Attualmente in ventiquattr’ore abbiamo una risposta ed è fondamentale sul piano clinico epidemiologico. Esistono i test anticorpali. Invece di farmaci antivirali capaci di debellare il virus esiste ben poco. Nessun farmaco è stato studiato e messo in commercio contro il Covid-19, ma sono stati riciclati altri antivirali che funzionano sì, ma non in modo eccezionale. Sul fronte della terapia, manca ancora un farmaco capace di annientare il virus in tempi rapidi. E non bisogna stupirsi: l’Aids fu scoperto nel 1983, i farmaci potenti nel 1995».
– Si tratta tra l’altro di un virus piuttosto insidioso e aggressivo, con capacità di andare a insinuare e danneggiare diverse parti del corpo. Un’ulteriore complicazione?
«Inizialmente si parlava del coinvolgimento dei polmoni. Nel tempo abbiamo imparato a intervenire sui trombi ed emboli che crea nel corpo, qualche volta causa di morte nei pazienti, per questo si interviene con le eparine che riducono il rischio. In alcuni malati abbiamo scoperto che si verificano dei momenti in cui l’immunità esagera nella sua risposta: è la cosiddetta “tempesta citochinica”, dove le citochine sono sostanze generate contro agenti nemici, virus o batteri; se ne vengono prodotte troppe, questo eccesso crea dei danni, per cui si somministrano farmaci usati per l’artrite reumatoide che spengono la risposta immunitaria esagerata. Ed è stato un contributo notevole nella terapia dei malati gravi».
– Manca il farmaco che annienti rapidamente il virus. E il vaccino?
«Ultimamente in merito al vaccino sono uscite notizie fuorvianti, che la gente recepisce abbassando la guardia, smettendo di indossare la mascherina e non adottando il distanziamento sociale. Ne sono allo studio 135, di cui 10 in fase avanzata, ma affermare che sarà disponibile in autunno è un notevole azzardo, mentre è probabile arriverà nel 2021. Cerchiamo allora di ragionare con calma e saggezza. Io sono moderatamente ottimista, ma con molta cautela e senza dimenticare che siamo cittadini del mondo. La storia sarà sconfitta quando a livello globale le cose andranno per tutti bene».
Marta Bicego
«Abbiamo tutti capito quanto siano importanti le relazioni di cura»
La riflessione di Chiaramonte (Adoa)
«Questo periodo ha dimostrato al mondo quanto le relazioni di cura siano la base su cui poggia tutta la società: gli ospedali strapieni e senza mezzi hanno fatto perno sulle strutture assistenziali per anziani e diversamente abili per non collassare; la scuola si è appoggiata sulle famiglie; anziani, bambini e persone fragili hanno resistito solo grazie alle piccole comunità domestiche, che hanno riscoperto tutto il loro valore sociale, pastorale, culturale ed economico». Sintetizza così, Tomas Chiaramonte, segretario generale di Adoa (Associazione diocesana opere assistenziali), i duri mesi che ci stiamo lasciando alle spalle.
«Mesi di lotta contro un male più grande di noi, in prima linea, ci hanno sferzato e profondamente cambiato: come marinai nella tempesta ci hanno unito e fatto comprendere su chi possiamo contare davvero – prosegue –. Hanno reso evidente che l’economia senza la famiglia, le comunità locali e il Terzo settore non ripartirà, perché il Covid-19 non può essere una parentesi che si apre e si chiude per tornare a essere quel che eravamo: è uno shock globale dal quale far partire, tutti insieme e con i fatti, un nuovo umanesimo».
La pandemia ha colpito duramente le generazioni più anziane, ha privato di funerali tanti nonni, ha reciso perfino gli ultimi gesti di conforto tra familiari e morenti, nel periodo di picco dell’emergenza. È emerso forte l’aspetto del prendersi cura di chi soffre, che le realtà aderenti all’Adoa conoscono bene. «Tantissimi uomini e donne nelle residenze per anziani e negli ospedali hanno lottato senza sosta contro la paura, la malattia, la morte, anche quando i mass media davano un’immagine angosciante dei luoghi di cura – sottolinea Chiaramonte –. Nonostante tutto, hanno continuato a fare il proprio dovere, spesso senza supporti adeguati, col sorriso di chi sapeva che anche la serenità è cura, anche l’amore e l’affetto sono una medicina. I morti del Covid-19 li hanno seppelliti gli operatori socio-sanitari, gli infermieri, i medici, i sindaci e i sacerdoti che, pregando sui loro ultimi giacigli o sulle loro tombe, sono diventati figli, padri e madri, portando l’umanità intera al capezzale di ciascuno di loro».
La pandemia ha fatto luce su una parola che la società negli ultimi decenni ha sempre considerato tabù: la morte. Ci siamo riscoperti tutti fragili. «La caduta del “mito dell’autosufficienza” è da anni al centro delle riflessioni bioetiche e la vulnerabilità è uno dei principi cardine: è la dimensione del limite intrinseco della condizione umana e l’oggetto di un appello morale a prendersi cura di chi è fragile, che dovrebbe essere in cima alle preoccupazioni della nostra società». Tanto più che, in futuro, ci sarà bisogno di maggiori servizi per la popolazione anziana e occorreranno quindi politiche di welfare intelligenti. «Ci auguriamo solo fatti – conclude –. Ciò che più ci ha fatto arrabbiare in questi mesi sono state le bugie: la distanza siderale tra ciò che sentivamo e quello che accadeva nella realtà». [A. Val.]
«Se mancherà la prossimità rimedieremo con la dimensione familiare»
La sfida: un nuovo modo di essere Chiesa
Se paragoniamo l’emergenza sanitaria che ci ha colto tutti di sorpresa a un incendio, cosa abbiamo fatto? I pompieri. Con quello che avevamo e come potevamo abbiamo cercato di spegnare le fiamme. L’incendio ora è domato quasi del tutto, ma rimangono le macerie, le scottature… Quando le squadre antincendio intervengono, non vanno molto per il sottile, buttano più acqua possibile anche se ciò può causare qualche effetto collaterale indesiderato; come si dice: a mali estremi, estremi rimedi. Così ci siamo improvvisati pompieri con grande passione e abbiamo risposto immediatamente – in questo l’Italia si distingue per capacità reattiva – e ci siamo buttati a capofitto sui social scoprendo un mondo che prima guardavamo con un certo sospetto.
Ma ripensando a questo tempo, è come se ci fosse mancato il terreno sotto i piedi. È stata minata una delle basi su cui si regge ogni comunità: la prossimità. Per una comunità cristiana essa si è storicamente sviluppata mediante un forte legame con il territorio e con una rete diffusa di rapporti tra le persone fatta di contatti fisici, incontri interpersonali e rapporti diretti. Questo complesso meccanismo si è improvvisamente inceppato e i normali canali comunicativi fatti di strette di mano, di abbracci e di posti da aggiungere stringendosi un po’, sono ora vietati. Un esempio su tutti: capita talvolta che al prete durante la Messa sfugga la frase: «Scambiatevi un segno di pace», che fino a poco prima era uno dei momenti in cui anche i bambini si potevano “scatenare” andando a portare il segno della pace a tutti i fedeli; in questo caso nell’assemblea cala un imbarazzo totale: ciò che era naturale e spontaneo, è diventato tabù.
Lentamente riprenderanno le principali attività pastorali; ma, come scriviamo ogni settimana sulla pagina intitolata “Andrà tutto nuovo”, la Chiesa sta affrontando una sfida enorme. Potrà uscirne rinnovata e rafforzata oppure ridimensionata non solo nei numeri, ma soprattutto nel significato. A cominciare dai preti sui quali si concentrano i segnali provenienti da tutti i fedeli. Si percepisce un senso di inadeguatezza rispetto al proprio ruolo di servizio e forse anche rispetto alla propria identità.
Altri segnali ci dicono che mai come in quest’ora la Chiesa è stata interpellata e chiamata a dire la sua parola per comunicare sentimenti di speranza. La cosa potrebbe sembrare un po’ strana, ma corrisponde bene alla logica del Vangelo: quando ci sentiamo deboli e con poche risorse, ecco che siamo sopraffatti da nuove domande di aiuto. Abbiamo poco cibo anche per noi e Gesù rilancia l’invito: “Dategli voi stessi da mangiare” (Lc 9,13).
Guardando in avanti, dopo questo bagno di umiltà, per certi versi salutare, si ripartirà mettendo al centro l’essere discepoli: disponibili ad imparare dalla realtà mutata e anche dagli errori commessi; senza fretta di decidere, ma con la pazienza di maturare insieme.
Come verrà fuori il nuovo “edificio”, è difficile da dirsi, ci vorrà molto tempo, ma le fondamenta su cui edificare sono già chiare: guardare bene in faccia la realtà e guardare negli occhi le persone perché ci sono risorse insospettate e sfide da raccogliere. Quella che è stata mandata in onda nell’emergenza Covid-19 è la Chiesa che eravamo, con prevalenza liturgica e clericale, con la fretta di ritornare a celebrare. Quella che manderemo in onda in futuro sarà più a dimensione familiare, dove la prossimità si tocca con mano in tutti i suoi risvolti.
Più ancora che preoccuparci di come, di quanti saremo o di quale posizionamento occuperemo a livello di potere sociale, dobbiamo avere a cuore che il Vangelo continui a scorrere e che la domanda di nuovi significati trovi lì nuova linfa vitale. E che l’essere credenti ci renda sufficientemente credibili.
Stefano Origano
«Cattolici: proposte inclusive portate avanti da fabbricatori di cultura»
Don Beghini (Toniolo): serve mobilitarci
E adesso, don Renzo, cosa serve a Verona, all’Italia per tirarsi su? Per evitare nel contempo di finire a terra?
«Dal lato umano, non occorrono “manager” che gestiscono più o meno bene, ma “imprenditori” che sappiano vedere distante, che producano cultura, che osino». Don Renzo Beghini, che è anche delegato episcopale per la Dottrina sociale della Chiesa, osserva dalla tolda della “sua” Fondazione Toniolo il panorama politico, economico e sociale che si presenta davanti ai veronesi, agli italiani. «Siamo in tempi in cui è difficile guardare distante, ma bisogna farlo perché temo che il peggio non sia ancora arrivato. L’autunno sarà la cartina di tornasole, si vedrà se il turismo ha ripreso, se il commercio si è rianimato, se non ci sarà il paventato terremoto sull’occupazione».
– Verona?
«Pare ancora un po’ “addormentata”, immobile. Fatica ad assorbire il contraccolpo, pesantissimo per una città che vive di commercio e turismo. Però è una posizione che non può permettersi».
– Noi cattolici, che cosa dovremmo e potremmo fare in questa fase?
«Anzitutto smetterla di sbagliare, di marginalizzarci ad esempio. Di proporci con logiche vecchie, sorpassate. Oppure di costruire rapidamente consenso per poi sfruttarlo a livello politico: i fallimenti sono stati molteplici. Dobbiamo uscire definitivamente dal tramontato schema parrocchia-partito stile vecchia Dc. È dal livello territoriale che dobbiamo farci sentire, dalle reti di collaborazioni e dalle tante energie che esistono sui territori. Che sono abbondanti, troppo spesso però scoordinate, atomizzate».
– Chi o cosa può catalizzare un arcipelago frammentato, ma anche numeroso e attivo? Come allontanarci dal rischio dell’irrilevanza?
«Non serve affidarci agli “uomini del destino” (ce ne sono in giro, poi?), ma alla possibilità che il Vangelo diventi proposta culturale, insieme di significati che guidano una comunità. Attenzione: non in forma ideologica e quindi escludente, certe esperienze passate dovrebbero servirci da lezione. Ma come presenza significativa e inclusiva. Sottolineo: inclusiva. A Verona come nel resto del Paese».
– Poi le idee comunque camminano con le gambe degli uomini...
«E nostro compito – Toniolo compreso, Toniolo in prima linea – sarà quello di far emergere e mettere insieme persone di cultura che sappiano guardare oltre. Ce ne faremo carico, in autunno arriveranno novità in proposito».
Nicola Salvagnin