Il velo islamico: tradizione o sottomissione? Un giorno di promozione in un dibattito spinoso
Checco Zalone in Che bella giornata (2011), davanti a una donna col burqa, diceva: “Eh, signora mi scusi, lo devi levare il velo per cortesia. Motivi di sicurezza”. Ma davanti al suo volto scoperto, decisamente brutto, riprendeva: “Ecco, per gli stessi motivi, rimettilo!”. Una risata politicamente scorretta su un tema caldo (allora più di oggi)...
Checco Zalone in Che bella giornata (2011), davanti a una donna col burqa, diceva: “Eh, signora mi scusi, lo devi levare il velo per cortesia. Motivi di sicurezza”. Ma davanti al suo volto scoperto, decisamente brutto, riprendeva: “Ecco, per gli stessi motivi, rimettilo!”. Una risata politicamente scorretta su un tema caldo (allora più di oggi).
Proprio nei mesi successivi all’uscita di quel film – certo non per quello – è stata istituita la Giornata internazionale del velo islamico, che dal 2013 viene proposta ogni 1˚ febbraio. A idearla è stata l’attivista Nadma Khatem, musulmana di origini bengalesi emigrata negli Usa, con la volontà di diffondere e difendere – dai pregiudizi occidentali di cui lei stessa è stata vittima – una scelta libera di devozione, modestia, appartenenza religiosa e protezione dal giudizio unicamente estetico.
A essere promosso – invitando tutte le donne, anche non musulmane, a indossarlo quel giorno – è in particolare l’hijab da non confondersi con il burqa, il niqab o con altri tipi di coperture nate spesso in epoca pre-islamica. Per quanto riguarda il primo, si tratta di uno scialle che copre capelli, fronte, orecchie e nuca della donna, lasciando scoperto il viso; insomma una sorta di “copertura minima” per rispettare la legge islamica, che però è abitualmente associata all’uso di un vestito lungo e largo, in modo da celare le forme del corpo. Per le organizzatrici si parla con entusiasmo della diffusione di questa Giornata e dell’appoggio di tante organizzazioni e istituzioni.
Decisamente contro si sono scagliati negli anni vari studiosi, politologi, sociologi, anche di origine musulmana. La questione di fondo, per loro, è come si possa far passare un simbolo di sottomissione per un simbolo di libertà. Dietro questo uso, infatti, non ci sarebbe una libera scelta, ma un sistema che – mentre non propone alle donne di vivere la preghiera, i digiuni, i pellegrinaggi – afferma che solo chi indossa l’hijab è morale e va in paradiso. Si tratterebbe quindi di un modo per cui gli uomini tengono sottomesse le donne e “marchiano” il territorio.
Per alcuni, poi, lo sdoganamento dell’hijab aprirebbe le porte alle coperture più pesanti. Molte donne iraniane (e non solo) stanno protestando con continuità contro il velo nei cosiddetti “Mercoledì bianchi”, levandoselo in pubblico a rischio di arresti e rappresaglie. In Italia, il Centro Studi Averroè, che si dichiara promotore di un Islam moderato, nel 2018 ha proposto che il 21 giugno diventasse il #NoVeloDay.
Nella discussione con regolarità sono intervenuti episodi, persone, riflessioni, in diversi ambiti: sportivi, culturali, politici, scolastici. Da una parte chi lo considera un segno di indipendenza, dall’altra chi lo vede come un simbolo di schiavitù. E chi è in mezzo? Spesso su questi temi ci si mette addosso un velo di indifferenza o di ideologia, eppure iniziano a spuntare beneauguranti germogli di confronti – citando Tacito – sine ira et studio, ovvero senza animosità e pregiudizi.
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