Iran: le donne (e non solo) in piazza
di GIULIO PIGNATTI
Proteste contro il regime degli Ayatollah sempre più oppressivo e violento
di GIULIO PIGNATTI
Quarta settimana di proteste, scandite dal grido “Donna, vita, libertà”, in Iran. Dopo le massicce manifestazioni dell’autunno 2019 represse nel sangue, strade e piazze di tutte le città iraniane sono di nuovo teatro di cori e scontri. Ma questa volta è una nuova fascia della popolazione ad essere protagonista: le donne, e in particolare le più giovani. Come Mahsa Amini, la ventiduenne morta tre giorni dopo il suo arresto a Teheran da parte della “polizia morale” per non aver indossato il velo in modo appropriato. L’indignazione pubblica seguita alla sua morte è stata la miccia delle proteste, che hanno nell’obbligo a indossare il velo islamico il principale obiettivo polemico (e simbolico). Proteste che stanno venendo soffocate violentemente, con esecuzioni sommarie, rastrellamenti e arresti arbitrari.
Secondo la ong Iran Human Rights, con sede a Oslo, da metà settembre sono state uccise almeno 185 persone, tra cui 19 bambini. Anche se siamo (per ora) lontani dalle drammatiche cifre del “novembre di sangue” del 2019, quando furono uccise oltre 1.500 persone, la reazione dura e nervosa delle autorità della Repubblica islamica – la Guida suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, ha denunciato le potenze straniere come responsabili delle sollevazioni – rivela (ma non è un segreto) una sempre maggiore fragilità dell’assetto emerso dalla Rivoluzione khomeinista del 1979. Non è solo questione di crisi economica: nel 2019 la scintilla fu l’aumento dei prezzi della benzina, quest’estate gli iraniani hanno sofferto per la mancanza d’acqua, e si aggiunge il peso delle sanzioni Usa. La reazione all’ingiustificata quanto assurda morte di Amini, seguita da quella di altre sue coetanee simbolo delle proteste (Haith Najafi, 20 anni, Nika Shakarami, 17...), ha catalizzato tutta la frustrazione per degli obblighi religiosi (fatti legge di Stato) non più tollerabili per una parte consistente della popolazione. Soprattutto per chi è sistematicamente vittima di una rigida limitazione dei diritti. Un esempio tra gli altri: in Iran le donne non possono viaggiare senza il consenso del marito.
Un report del Quartier generale iraniano per la promozione della virtù e per la prevenzione del vizio, a inizio 2022 denunciava un crollo della moralità del Paese a maggioranza sciita e una perdita di influenza ideologica del regime (che svolge un’intensa attività di controllo e formazione dei costumi): il 62% delle iraniane sarebbero contrarie all’obbligo del velo completo (il chador). Del resto le donne sono sempre state tutt’altro che personaggi secondari nella ricca vita culturale e sociale persiana. Da qui lo slogan delle proteste: in lingua farsi “Zan, zandegi, azadi” e in curdo “Jin, jiyan, azadi”. Mahsa Amini, che si trovava a Teheran per una breve vacanza prima di iniziare l’università, era infatti originaria del Kurdistan iraniano, e il suo vero nome era Jina. Ma alla minoranza curda è vietato registrare nomi non persiani all’anagrafe; così quella parola legata etimologicamente sia alla parola “vita” che a “donna” era scomparsa. Per riemergere nelle voci di manifestanti in tutte le città del Paese mediorientale e in quelle degli iraniani della diaspora. Ma intanto il regime ha approfittato del clima di repressione per un giro di vite anche nelle regioni curde nord-occidentali. I numerosi video che circolano in rete mostrano giovani donne e ragazze scese in piazza per rivendicare libertà di scelta e di espressione, togliersi il velo e bruciarlo, oppure tagliarsi i capelli in segno di protesta – gesto ripreso anche nel resto del mondo in sostegno alla causa delle manifestanti. Proteste imponenti si sono verificate in tutte le parti del Paese (novità rispetto al 2019), e soprattutto in scuole e università. Ad esempio all’Università Sherif di Teheran, uno dei centri storici del dissenso ma anche il più importante politecnico dell’Iran, da dove escono le menti più promettenti. Lì, in controtendenza con i dati ad esempio italiani sulla partecipazione femminile alle discipline tecnico-scientifiche, la maggioranza dei laureati sono donne. La notte del 3 ottobre l’ateneo è stato assediato dalle forze armate, tra cui molti agenti in borghese. La questione generazionale è evidentemente centrale.
Quella che scende in piazza è la generazione che non solo non ha vissuto la Rivoluzione islamica che nel 1979 cacciò lo scià Reza Pahlavi, sostenuto dagli Usa, ma soprattutto non si è temprata ideologicamente durante la logorante guerra con l’Iraq degli anni Ottanta. Tra questi ultimi c’era invece l’attuale presidente dell’Iran, l’ultraconservatore Ebrahim Raisi, eletto nel 2019 (nel 1988 prese parte all’esecuzione di decine di migliaia di prigionieri politici) e vicino all’area dei pasdaran, i Guardiani della rivoluzione, che difesero il regime di Khomeini nelle trincee del deserto occidentale. Insieme ai basij, i giovanissimi volontari che, arruolati direttamente nelle scuole, trovarono la loro formazione personale nel clima politico-ideologico della difesa armata della Repubblica islamica. Oggi il 75% della popolazione ha meno di 35 anni e non ha partecipato alla Rivoluzione. È cresciuta nelle grandi città guardando all’Occidente attraverso i social network (in buona parte bloccati durante le proteste).
È intollerante all’obbligo più che al velo: quella distinzione tra pubblico e privato che aveva caratterizzato i costumi dei loro padri (nel privato i comportamenti sono sempre stati decisamente meno rigidi) è scardinata e ragazze come Mahsa Amini vogliono poter decidere se portare il velo o meno. Senza che questa sia una sentenza sulla loro moralità. O finanche sulla loro vita. Da questo dipende anche il futuro del movimento, che per ora appare acefalo e quindi – secondo gli analisti – difficilmente destinato ad ottenere risultati radicali. Il regime potrà anche allentare la legislazione sul velo – Khamenei ha già detto, preoccupato, che si può sostenere la Repubblica islamica anche senza indossare l’hijab completo, e voci critiche verso la polizia morale si sono levate anche dall’interno degli apparati –; ma se le spinte popolari arriveranno a minacciare la forma (semi-)teocratica, è altra questione. Negli ultimi anni in Iran la religione è diventata sempre più uno strumento di rigidità nazionalistica e di controllo del potere nelle mani della fazione politico-militare, che ha invece emarginato i centri religiosi (oltre che il parlamento democratico e le fazioni più moderate, d’opposizione) dalla gestione del Paese. È contro di ciò, e per rivendicare la propria autonomia, che le iraniane sono scese in piazza. Di certo il momento è cruciale: sono molte le voci sulla fragile salute della Guida suprema, e un potenziale successore non è ancora emerso (c’è chi parla di Raisi stesso, auto-nominatosi ayatollah). Le possibilità che alla morte di Khamenei si apra un periodo di transizione ci sono.
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