La storia d’amore di Lahiri con la lingua italiana
Jhumpa Lahiri
In altre parole
Guanda, 2015
pagg. 156 - 14 euro
Non sono rarissimi gli autori che hanno deciso di scrivere in una lingua diversa da quella materna: tra loro Joseph Conrad, romanziere polacco che è diventato uno dei narratori più importanti della letteratura inglese; Emile Cioran, saggista rumeno che ha regalato alla letteratura francese perle di pensiero filosofico; Vladimir Nabokov, scrittore russo che ha iniziato a usare la lingua inglese dopo essersi trasferito negli Stati Uniti; ma anche donne come l’algerina Assia Djebar che ha scritto nella lingua del “colonizzatore” francese e molti altri. Tra questi, non possiamo tralasciare il nostro Antonio Tabucchi che ha scritto Requiem in portoghese, la lingua di cui si è innamorato. Non è quindi un caso se in esergo al libro In altre parole (Guanda 2015) della scrittrice statunitense di origine indiana Jhumpa Lahiri leggiamo le parole di Tabucchi: “Avevo bisogno di una lingua differente: una lingua che fosse un luogo di affetto e di riflessione”. In altre parole, infatti, è stato pensato e scritto direttamente in italiano, una lingua che Lahiri ha imparato da adulta.
Figlia di emigrati indiani di Calcutta, stabilitisi prima in Inghilterra e poi negli Stati Uniti, sin da piccola sa che, se si vuole integrare nel nuovo Paese, deve imparare perfettamente l’inglese, nonostante a casa si parli solo il bengalese, una lingua che non potrà approfondire perché tutta concentrata a imparare quella della scuola: “Nessuna mia maestra a scuola, nessuna mia amica è stata mai incuriosita dal fatto che io parlassi un’altra lingua. Non lo apprezzavano, non mi chiedevano niente. Non gli interessava, come se quella parte di me, quella capacità, non ci fosse”. Eppure, nonostante da bambina impari perfettamente l’inglese, da grande si sentirà ovunque un po’ straniera: a Calcutta, perché le persone le si rivolgono il più delle volte in inglese, e in America, perché tutti la prendono per una straniera a causa del suo aspetto fisico. Tuttavia, sarà proprio negli Stati Uniti che riuscirà ad affermarsi come scrittrice di lingua inglese, ottenendo diversi riconoscimenti tra cui il prestigiosissimo Premio Pulitzer.
In Italia, la sua opera è stata tradotta da Guanda: Una nuova terra (2010) e La moglie (2013) sono solo alcuni dei suoi romanzi, mentre In altre parole rappresenta una totale novità, non solo per l’autrice, ma anche per la stessa casa editrice.
Ma perché questa giovane donna, scrittrice statunitense di successo, che ha già dovuto “subire” lo sforzo di imparare un’altra lingua, un giorno decide, non solo di scrivere in italiano, ma addirittura di trasferirsi a Roma con marito e figli piccoli? E perché tutto ciò accade senza alcuna motivazione familiare o professionale? Eccola allora, pochi anni fa, approdare a Roma con tutta la famiglia in pieno Ferragosto. Nella capitale, continua l’avventura iniziata a Firenze, vent’anni prima. Sì, perché è nella città natale di Dante che Lahiri ha vissuto l’incontro magico della sua vita: un vero colpo di fulmine per la lingua italiana. Ed è questa la storia d’amore che ci narra in questo breve racconto scritto in prima persona. Un innamoramento che inizia da una spoliazione e da una perdita: “Quando rinuncio all’inglese rinuncio alla mia autorevolezza. Sono traballante anziché sicura. Sono debole”. La scrittura è autentica e porta con sé la fragilità che la Lahiri ha deciso di indossare. Di vivere. Una scrittrice affermata che percepisce la propria debolezza come una sorgente da cui trarre forza per crescere. Accettare il limite in una società dove i limiti non si possono più nemmeno chiamare per nome: qui sta la forza del libro.
In altre parole, non è solo una storia d’amore singolare, ma è anche un racconto che ci aiuta a riflettere su tutto ciò che comporta l’identità culturale e linguistica di una persona. E di questi tempi, ne abbiamo tutti un gran bisogno.