Una guerra spaventosa che ha molto da insegnare
Come domenica scorsa, 4 novembre di cento anni fa, l’Italia usciva da una guerra che durava da 41 mesi. Una “inutile strage” come ebbe a chiamarla papa Benedetto XV, che lasciò sul terreno 16 milioni di morti tra i soldati e 7 milioni di civili.
Come domenica scorsa, 4 novembre di cento anni fa, l’Italia usciva da una guerra che durava da 41 mesi. Una “inutile strage” come ebbe a chiamarla papa Benedetto XV, che lasciò sul terreno 16 milioni di morti tra i soldati e 7 milioni di civili. Una guerra anomala rispetto a quelle precedenti. Quelle si combattevano in aperta campagna tra eserciti che si scontravano direttamente, lasciando fuori i civili. Questa introdusse la guerra di trincea, con tutto quello che significava di fatiche e di privazioni. Ma soprattutto fu una guerra che si giocò a 360 gradi, senza risparmiare la popolazione civile. Il fatto è che sullo scenario era entrata l’industria che, soprattutto negli altri Paesi europei, conosceva un boom di straordinaria importanza. Nella guerra entrarono così gli aerei, la ferrovia, l’artiglieria pesante, i cannoni…
Noi, nonostante i 650mila soldati morti e nonostante la nostra fragilità sul piano industriale e militare, ne uscimmo vincitori. Dopo la cocente sconfitta di Caporetto, fu il generale Diaz a motivare le truppe, con paziente lungimiranza, fino a portarle all’attacco che si concluse a Vittorio Veneto obbligando l’esercito austroungarico ad una resa incondizionata. Fu una vittoria, ma fu una vittoria mutila come si ebbe a dire negli anni a seguire con qualche rimpianto. I nuovi alleati, Inghilterra, Russia e Francia, ci avevano promesso i territori fino alle Alpi, più Trieste, l’Istria, la Dalmazia e una parte dell’Albania. Dovemmo accontentarci di molto meno, come ben sappiamo.
Domenica scorsa in molte piazze abbiamo visto garrire le bandiere, nelle tante cerimonie ai monumenti ai caduti. Eppure l’impressione è che di questa pagina della nostra storia interessi ben poco alla maggior parte dei cittadini. Se non fosse per gli alpini e la loro ostinata volontà di far memoria dei caduti e poche altre associazioni, il silenzio sarebbe tombale. Neppure a scuola se ne parla più, quasi si trattasse di reperto museale per coscienze fuori moda. Ma è un errore ignorare questo segmento del nostro passato, perché è lì a insegnarci che la guerra non scoppiò per un attentato a Sarajevo. La guerra fiorì da una cultura che aveva alimentato l’ostilità tra quelle Nazioni che un tempo avevano costituito il Sacro Romano Impero, unite dalla stessa fede, dagli stessi diritti e dalla stessa filosofia di vita. Fu una “malattia morale” come ebbe a definirla Benedetto Croce. A preparare la guerra e a scatenarla fu in realtà il virus del nazionalismo, che trasformò in epidemia l’antagonismo di chi voleva spuntarla sugli altri. La Germania contro la Francia per il predominio sul territorio europeo, la Germania e l’Inghilterra per quello sui mari e l’ingordigia di primeggiare nella conquista di nuove colonie, la Russia contro l’Austria per il predominio nei Paesi slavi, l’Italia contro l’Austria per il controllo dell’Adriatico, la Russia contro i turchi per il Bosforo e i Dardanelli. Tutti contro tutti.
Anche oggi l’Europa sta per essere contagiata dal virus dei nuovi nazionalismi. Che nascono da altre motivazioni, ma pur sempre capaci di dividere. In campo ci sono la finanza, i mercati, lo spread, gli immigrati, i bilanci... Mille ragioni per dire che non stiamo più bene insieme. Come se la lezione della storia fosse una leggenda su cui fare un supponente sberleffo.
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