Una gran brutta storia che attende chiarezza
Ca’ Raffaello, una spruzzata di case tra la Toscana e la Romagna, come coriandoli persi per strada dal Padreterno, di passaggio mentre andava a fondare qualche città. Oppure viene in mente Rio Bo di Palazzeschi: tre casettine dai tetti aguzzi, con la stella che occhieggia col cipresso...
Ca’ Raffaello, una spruzzata di case tra la Toscana e la Romagna, come coriandoli persi per strada dal Padreterno, di passaggio mentre andava a fondare qualche città. Oppure viene in mente Rio Bo di Palazzeschi: tre casettine dai tetti aguzzi, con la stella che occhieggia col cipresso. Solo che a Ca’ Raffaello la stella ha smesso di occhieggiare da tempo. Al suo posto s’è fatta incombente una nuvola nera che ha trasformato questo piccolo angolo, in provincia di Arezzo, in un luogo cupo e pieno di malinconia.
Il tutto comincia quando in parrocchia, di trecento anime sì e no, arrivano tre preti di colore, tra cui Alabi Gratien, congolese, appartenente all’ordine dei Premonstratensi. Per tutti padre Graziano. È cordiale e brutto come il peccato, ma affascina le signore che ronzano intorno al campanile. A cadere tra le sue spire è soprattutto la cinquantenne Guerrina Piscaglia (anche se da quelle parti la gente mi ha detto sottovoce che non sia stata la sola). Una donna buona e sempliciotta che non ha trovato, sposandosi, il principe che sognava. Il marito, che è fragile come di più non si può, alza stabilmente il gomito. Ad aggravare lo scenario ci si mette l’arrivo di un figlio, oggi più che ventenne, con gravissimi handicap fisici e psicologici. Forse per la prima volta nella vita, Guerrina sente in quel prete di colore le braccia forti di una virilità rassicurante e se ne invaghisce. Oltre quattromila sms tra i due, nel giro di pochissimi giorni sono la testimonianza di qualche cosa che in Guerrina prende pian piano il sopravvento. Il parroco probabilmente capisce che lei sta cercando qualcosa che non corrisponde più a ciò che lui aveva cercato. È con queste premesse che Guerrina Piscaglia sparisce il primo maggio del 2014. Di lei, da allora non c’è più traccia.
Don Graziano, lo si scoprirà dopo tre mesi, aveva presso di sé il suo cellulare, da cui partivano messaggi rassicuranti tendenti a far credere in una volontaria fuga d’amore. Solo che i messaggi erano scritti da una mano straniera di lingua madre francese, lingua che si parla in Congo. Nei giorni scorsi, don Graziano è stato condannato a 27 anni di carcere per omicidio e occultamento di cadavere. Tra le prove portate in Tribunale dai suoi difensori anche il fatto che la Curia e i suoi superiori gli hanno sempre dato fiducia, credendo alla sua innocenza. Non sarò io a dire che è lui l’assassino, ma le tante bugie raccontate, le ambiguità, il possesso del telefonino della scomparsa e i depistaggi con i falsi sms ci raccontano di un prete dai tanti lati oscuri. Che i suoi superiori gli diano fiducia è cosa buona, ma la verità è altra cosa ancora. E la verità qualche volta esigerebbe il coraggio di schierarsi dalla parte della gente, evitando quel verticismo clericale, che finisce per ignorare i diritti del popolo di Dio a solo vantaggio di chi ha il potere.