Un razzismo sottile corre come un virus nelle nostre culture
Otto minuti e quarantasei secondi. Tanto è bastato a George Floyd, afroamericano di 46 anni di Minneapolis, per morire sotto il peso del corpo di un poliziotto senza scrupoli. Le sue ultime parole, prima dello scadere della clessidra sono state: «I can’t breathe»...
Otto minuti e quarantasei secondi. Tanto è bastato a George Floyd, afroamericano di 46 anni di Minneapolis, per morire sotto il peso del corpo di un poliziotto senza scrupoli. Le sue ultime parole, prima dello scadere della clessidra sono state: «I can’t breathe», non riesco a respirare. George non era uno stinco di santo. Nel suo passato molti reati avevano macchiato la sua immagine di gigante buono e di sportivo generoso, come lo ricordavano i suoi compagni di collegio. Ma è sempre difficile raggirarsi tra le macerie della vita e scoprire da dove è iniziata la caduta della prima pietra che ha dato il via al crollo del muro. E allora, se viene meno la capacità di guardarsi da vicino, di incontrarsi da uomini, allora anche un contatto fisico rischia di trasformarsi in una lontananza incolmabile, piena di violenza. Scrive Edmond Jabès, poeta francese morto nel 1991: “Avvicinati. A due passi da me sei ancora troppo lontano. Mi vedi per quello che sei tu e non per quello che sono io”. Potremmo dirlo non solo per gli estranei, ma per tutte le situazioni che ci rendono tali, spesso anche dentro le mura domestiche, quando il focolare, inteso come spazio del calore umano, si tramuta nel gelo del rancore e della violenza. Lontananze sempre più radicali, incolmabili, popolate solo di odio. Cieco. Non perché l’odio non sappia vedere dove colpire e come fare il male, ma cieco perché incapace di guardare dentro al cuore dell’altro, per cogliere il seme di umanità messo dentro alla terra della nostra esistenza.
Cosa ci fosse nel cuore di George nessuno lo saprà mai. Ma 46 anni, sull’orologio della vita, segnano comunque il tempo di un mattino in cui tutto è ancora possibile per convertirsi a un futuro migliore, dando pienezza all’esistenza prima dell’arrivo della notte.
Mentre il mondo scende in piazza per manifestare contro il razzismo, non sempre e ovunque in maniera ideologicamente disinteressata, è importante che la società si interroghi sulla sorgente dell’odio che serpeggia in maniera sempre più virulenta nelle nostre relazioni personali. E mi sembra parziale e ipocrita scomodare l’odio verso chi ha un colore diverso della pelle, dimenticando che viviamo dentro a culture, che chiamiamo evolute, ma che di fatto sono sempre più inclini a lasciarsi contaminare dal virus dell’intolleranza.
Certamente il primo pensiero corre a gruppi minoritari, più spesso appartenenti all’estrema destra, dove l’odio diventa elemento di identificazione del gruppo, dove si abdica alla ragione, a tutto vantaggio del piacere, tipico dell’uomo e solamente suo, di essere crudele per sentirsi forte.
Ma questo non deve farci chiudere gli occhi su altre cause capaci di generare conflitto e ostilità sociale, spesso mascherate da ottime intenzioni da parte dei responsabili irresponsabili della cosa pubblica, quando, per soli scopi elettorali, incanalano i disagi della gente nell’alveo dell’intolleranza verso i più deboli o verso alcune categorie sociali. Strategie mirate per lasciarci intendere che solo dando loro il voto saremo in grado di rimuovere le cause che impediscono il salto di qualità della vita, eliminando incertezze e smarrimento che segnano questo tempo di transizione.
Siamo alla cultura mai morta del capro espiatorio, o se volete dell’untore, che domanda una riflessione morale prima ancora che delle piazze, le quali rischiano esse stesse di creare uomini contro, anziché persone capaci di dialogo e tolleranza, perché nulla è più potente della menzogna che si traveste da verità, ovunque e comunque la si proclami.
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