Il Fatto di Bruno Fasani
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I sentimenti di odio seminati nei social e dentro la cultura

Con il solito imbroglio semantico, che è quello di nascondere la verità dei fatti sotto una camicia lessicale che la mimetizzi, vengono definiti haters. Questo in inglese, ma per chi dovrebbe sapere quello che c’è dietro, e ancor più chi sono quelli che scrivono, dalle nostre parti si chiamano odiatori...

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Con il solito imbroglio semantico, che è quello di nascondere la verità dei fatti sotto una camicia lessicale che la mimetizzi, vengono definiti haters. Questo in inglese, ma per chi dovrebbe sapere quello che c’è dietro, e ancor più chi sono quelli che scrivono, dalle nostre parti si chiamano odiatori. Sul digitale fioriscono come i funghi dopo una pioggia in luna crescente. In genere si comincia dagli adolescenti che, notoriamente, spesso dissociano la ragione dalle pulsioni dell’istinto, ma poi si scopre che l’adolescenza sembra prolungarsi come stagione psicologica anche dentro certe anagrafi, vecchie come le mura di Gerico.
Va di moda l’odio o se volete le passioni violente. Qualcuno si ostina a chiamare i suoi protagonisti leoni da tastiera. Ma si tratta di un’offesa al felino. Se all’animale vanno ricondotte le caratteristiche del coraggio e della forza, ai conigli del pc al massimo concediamo scarsa dimestichezza con la massa cerebrale e un’indole irresistibile a girare con la coda tra le gambe, pronti a cercare una tana dove nascondere mano e terga. Gli psicologi ci raccontano che dietro un odiatore c’è sempre un insicuro e un frustrato. La pensiamo così anche noi pur non avendo titolo accademico, ma sapere da dove vengono i comportamenti non vuol dire né accettarli e, tantomeno, giustificarli.  
Ma gli odiatori non sono soltanto sui social. Temo, purtroppo, che sia un virus che circola senza frontiere. Origliavo una conversazione tra alcune coppie di sedicenti cristiani praticanti. Parlavano di immigrati e lo facevano riportando le fonti delle loro informazioni. Programmi televisivi, citati per serata ed orario con relativi conduttori, e poi giornali… Insomma, anche loro avevano la loro piccola bibbia, secondo la logica di certa ideologia, che li rendeva un cuore solo e un’anima sola. Ed era palpabile l’idolatria che ne avvertiva l’orecchio smaliziato, quell’idolatria che scatta quando le coscienze sostituiscono il Dio maiuscolo, quello di Gesù, con qualche altro, sbucato dalle ceneri morali di questo mondo. Dire che ce l’avevano col Papa è un eufemismo. Soprattutto vi risparmio le battute sulle migliaia di morti finiti in fondo al mare. Su questo loro destino più che imbastirci sentimenti di dolore, ci ricamavano sopra un investimento di speranza.
Il pensiero mi andava alla canzone di Guccini, in cui parlando di Auschwitz si gridava al Cielo: nei campi di sterminio, Dio è morto. E per analogia mi chiedevo: dov’è Dio nel linguaggio di questi fratelli, che vanno in chiesa la domenica, cresciuti in una tradizione che ha perso per strada la Parola, facendoli abbeverare alle tante parole dei troppi stolti che ci fanno da maestri? E mi chiedevo se non sia ora di tornare a mettere al centro la Parola, perché lo Spirito operi un cammino di conversione delle menti prima ancora che delle opere. Una quotidiana annunciazione, senza la quale il Vangelo finirà per emigrare in altre terre e in altre culture.
Ma perché contamina tanto la cultura dell’odio? Carolin Emcke, giornalista tedesco, in un suo libro, sostiene che l’odio è un “sentimento non esatto”. Inesatto, perché si colpisce senza guardare i dettagli, ossia il volto, la storia di una persona, le sue lacrime e le cose belle e positive che si porta dentro. È uno sparare nel mucchio, perché l’indistinto ti evita di tirare fuori le ultime tracce di bene che ancora sopravvivono nella coscienza, quelle che ti farebbero fermare, forse meditare e probabilmente cominciare ad amare. E scoprire che uccidere nelle parole è seminare morte due volte, nella cultura intorno e nella capacità del tuo cuore di vivere per gli altri.

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