Ripensare il matrimonio dai suoi contenuti di fede
Con l’avvicinarsi dell’autunno e quindi del Sinodo sulla famiglia, che dovrà dare risposte a tante questioni in sospeso, anche nella Chiesa, e neppure tanto velatamente, si è aperto una sorta di dualismo tra guelfi e ghibellini. Se, da una parte, c’è chi inneggia al nuovo stile di papa Francesco e alla sua carica trascinatrice...
Con l’avvicinarsi dell’autunno e quindi del Sinodo sulla famiglia, che dovrà dare risposte a tante questioni in sospeso, anche nella Chiesa, e neppure tanto velatamente, si è aperto una sorta di dualismo tra guelfi e ghibellini. Se, da una parte, c’è chi inneggia al nuovo stile di papa Francesco e alla sua carica trascinatrice, non mancano voci allarmate, preoccupate che questo stile vada ad intaccare la solida dottrina. Troppa misericordia e poca verità, sottolinea preoccupato qualcuno. Come se la misericordia non fosse il primo pilastro della dottrina, senza la quale tutto rischia di tradursi in codici, degni del miglior fariseismo, quello che mette il sabato prima dell’uomo.
In particolare allarma l’ipotesi dell’accoglienza dei coniugi divorziati e risposati e la possibilità di riammetterli all’eucaristia. Non spetta a me anticipare conclusioni, ma forse questa potrebbe essere una grande opportunità per aprire una riflessione più ampia nella Chiesa, a tutti i livelli, cominciando dal ripensamento dei corsi per fidanzati, per arrivare ad una seria pastorale familiare.
Riandando alla mia formazione teologica, comune a tutta la Chiesa dal Concilio di Trento in poi, emerge evidente un certo tipo di lettura che si è fatta del sacramento del matrimonio. Ossia una lettura di tipo essenzialmente giuridico e morale. L’importante era la celebrazione. Che fosse fatta in regola, con tutti i crismi prescritti. Una volta finito il rito lì esisteva il sacramento, con tutto quel che ne conseguiva. Non voglio tirare sassi nello stagno, ma porre qualche domanda. Quante coppie abbiamo portato all’altare, sapendo che non avevano per nulla chiaro il senso della propria fede e il contenuto del sacramento che chiedevano di incarnare nella loro vita? Quante coppie abbiamo unito in matrimonio sapendo che uno dei due coniugi si dichiarava assolutamente indifferente alla scelta religiosa? Eppure bastava la promessa che avrebbe accettato le clausole dell’indissolubilità, escludendo il divorzio, pur sapendo che erano promesse ad uso... amministrativo. Che avrebbe accettato di educare cristianamente la prole, sapendo che, bene che andasse, sarebbe stata la madre a tirare la carretta. Eppure bastava questo perché un timbro ratificasse la nascita di un sacramento. Una procedura che lentamente ha dato solidi confini giuridici al matrimonio, ma lo ha svuotato della sua teologia, ossia del fondamento da cui fiorisce la fede. San Paolo, nella lettera agli Efesini, definisce il matrimonio un Mistero grande, ossia la riproduzione, nei modi di vivere della coppia, di quello stile che unisce Gesù alle sue creature. Chi celebra il sacramento del matrimonio si mette a disposizione di questo progetto. Una chiamata, né più né meno, analoga a quella di un prete o di un consacrato. Se non si recupera questo contenuto, allora tutto rischia di ridursi a contratto, dentro una società sempre più refrattaria a legami vincolanti.
Se questa diagnosi risulta condivisibile, è doveroso domandarsi: ma quanti dei matrimoni celebrati in Chiesa sono celebrati anche nel Signore e quindi segno di una fede che si è messa al servizio del progetto evangelico? Solo a quest’ultima condizione è possibile parlare di sacramento e solo partendo dalla fede potremo evitare il rischio di coppie unite da un timbro, per quanto ecclesiastico.
È davvero fuorviante pensare a coppie divorziate che si mettono in cammino, stavolta seriamente, per approdare ad una vita autenticamente sacramentale? La prima volta nella loro vita probabilmente, nonostante, un registro attesti che erano già passate dagli uffici del parroco e dalla chiesa, con tanto di addobbi.